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Non c’è troppo da stupirsi che la Cina abbia bloccato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la risoluzione redatta dagli inglesi con cui si intendeva definire “colpo di stato” il ritorno dei generali in Myanmar. Alla spinta pro-democratica della Global Britain, Pechino risponde con lo stop istituzionale – all’Onu – e con informazioni alterate diffuse dai media di stato, che definiscono quanto sta succedendo a Naypyitaw come “grande rimpasto di governo”.

Si delinea il fronte: da una parte le democrazie, che adesso Joe Biden vorrebbe istituzionalizzare in un’alleanza globale, dall’altra i sistemi autoritari, con la Cina che ha trovato allineamento con la Russia come già successo nel 2017, quando la Birmania era stata protetta da qualsiasi azione significativa del Consiglio di sicurezza contro la pulizia etnica ai danni della minoranza rohingya. Formalmente “Cina e Russia hanno chiesto più tempo”, ha detto un diplomatico all’AFP.

La diffusione di una dichiarazione congiunta – che nella bozza vista da Politico conteneva anche la richiesta del rilascio della leader del partito di maggioranza, Aung San Suu Kyi, e di altre figure politiche incarcerate nei giorni scorsi dai militari – è il primo passo per muovere il gioco verso sanzioni congiunte. Sanzioni che peraltro sono considerate come deleterie in Myanmar, viste – come già sono state – nella forma di un vettore per il peggioramento delle condizioni di vita nel Paese.

Martedì, il dipartimento di Stato statunitense ha ufficialmente etichettato i fatti come un “colpo di stato”, il che significa che non può offrire aiuti al nuovo regime militare di Naypyitaw. Al contrario Pechino risponde sventolando la “non ingerenza” come linea di azione, e il ministero degli Esteri si augura che si “possano gestire le differenze” e recuperare l’armonia. Una posizione che è certamente frutto di una priorità ideologica, l’evitare di interferire nei processi degli altri paesi per chiedere altrettanto per sé, ma anche di interessi.

“Lo scontro all’Onu è anche frutto del confronto Usa-Cina, ma dobbiamo considerare che il Myanmar è distante e non solo geograficamente dall’Occidente. Questo è frutto anche del passaggio di An Sans Suu Kyi dalla beatificazione pop, donna che si era presa sulle spalle il destino del Paese, alla caduta dopo le posizioni assunte sui rohingya, che non sono state critiche per il semplice fatto che non poteva mettersi di traverso a un sistema che da anni guidava le istituzioni”, spiega a Formiche.net Stefano Pelaggi, Sapienza Università di Roma e Geopolitica.info.

Il Partito/Stato non vuole schierarsi né con i militari né con la politica (leggasi Aung San Suu Kyi). Cerca un equilibrio tramite l’equidistanza. Ha rapporti con entrambi i fronti – a inizio gennaio, il capo della diplomazia cinese, Wang Yi, è stato nel Paese e ha incontrato entrambe le parti, che erano già in fase di scontro perché i militari avevano denunciato che la vittoria schiacciante (83 per cento dei seggi parlamentari) ottenuta dalla leader politica fosse fatta di brogli.

“Per i militari era impossibile accettare quella sconfitta, si sentivano troppo messi da parte – aggiunge Pelaggi, che ha vissuto in Birmania per un progetto universitario con la Yangon University Foreign Language – e dobbiamo considerare che la presenza dei militari è un fattore costituzionale, dunque le persone sono abituati a loro, sebbene in questa fase si vedono processi di disobbedienza civile che sono forse l’aspetto più interessante di quello che sta accadendo”.

La tappa di Wang Yi in Birmania era parte di un viaggio nel Sudest asiatico, ed è proprio questa dimensione da tenere sott’occhio quando si parla della posizione cinese nei confronti del Paese e delle sue dinamiche. “Certamente, c’è un profondo legame tra i due Paesi, e per la Cina il Myanmar ha una dimensione geopolitica. È così dall’Ottocento, quando si scoprì una possibile linea di collegamento all’India, oltre che lo sbocco nel Golfo del Bengala, ossia nell’Oceano Indiano. Funzione geostrategica molto importante per la Cina”, conclude Pelaggi.

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