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Del PCI, di questa grande comunità umana e politica, i simboli più amati erano la bandiera e la tessera. Ma se la bandiera è un simbolo prevalentemente collettivo, da appendere sulla porta della sezione o da sventolare alle manifestazioni e nelle piazze, quando si è in tanti, la tessera ha qualcosa di più intimo e personale: è un pezzo unico, sebbene sia perfettamente uguale a migliaia, a milioni di altre, perché porta inscritto il proprio nome.

Già nella seconda metà dell’Ottocento le prime leghe contadine, le società operaie e le società di mutuo soccorso stampavano ciascuna la propria tessera, e la prassi fu naturalmente adottata anche dal PSI a partire dalla sua fondazione nel 1892. Rimase però la tradizione delle tessere locali, emesse cioè dalle singole strutture di base del partito, e soltanto a partire dal 1905 la Direzione nazionale del PSI cominciò a stampare una tessera ufficiale.

La parentela fra le tessere del movimento operaio e i santini distribuiti dalla Chiesa cattolica è esplicita fin dall’inizio, e attribuisce alla tessera un significato del tutto particolare, di vera e propria devozione laica, oltreché di veicolo di diffusione delle immagini del socialismo. Scriveva Oddino Morgari in “L’arte della propaganda socialista”, pubblicato nel marzo 1895 su “Lotta di classe”, il settimanale ufficiale del PSI: “La massa incolta, non potendo alimentarsi con il lavorio del cervello, ha bisogno di fissarsi su segni materiali dell’idea.

Non altrimenti l’alta filosofia cristiana si è nel contadino mutata in un’adorazione di amuleti sacri e di santi di carta pesta. Perciò sono a raccomandarsi le tessere di ammissione, anche un po’ eleganti, in cartoncino in colore: il neofita ostenta con gli amici questa prova di un’affiliazione che l’ingrandisce”.

La “tessera di riconoscimento”, come allora veniva chiamata, significava e ha continuato nei decenni a significare un’adesione ideale al Partito, un profondo convincimento interiore, una “scelta di vita” che si traduceva direttamente nell’impegno, nella militanza, nell’attività di propaganda e nell’autofinanziamento.

Ogni mese il tesserato versava alla sezione il contributo mensile previsto, che veniva registrato sulla tessera nella casella corrispondente (a metà degli anni Venti furono introdotti appositi bollini da incollare): in questo modo il pagamento delle quote risultava più agevole per l’iscritto, il quale una volta al mese aveva l’occasione, se non l’obbligo, di frequentare la sezione.

Il PCI mantenne l’abitudine dei bollini mensili fino al 1962, quando divennero semestrali, e infine, a partire dall’anno successivo, annuali.

L’iscrizione avveniva sempre attraverso la struttura di base di riferimento – la sezione territoriale o di lavoro, il circolo, la cellula – e veniva ratificata dai relativi organismi dirigenti. Il primo Statuto del PCd’I (1921), che dà al Partito un’organizzazione sostanzialmente militare, prevedeva un periodo di “candidatura” di sei mesi allo scopo di “garantire il partito della fedeltà e dello spirito di disciplina dei suoi membri” (art. 7).

Negli anni della clandestinità il PCI non emetterà tessere ufficiali, probabilmente anche per ragioni di sicurezza (l’ultima è del ’25), ma alla caduta del fascismo, nel ’43, le strutture locali che si vanno via via organizzando in tutta Italia cominceranno a stampare e a distribuire tessere provvisorie, alcune delle quali sono piccoli capolavori di arte grafica. Il frontespizio della prima tessera ufficiale dopo la Liberazione è disegnato da Renato Guttuso.

Nello Statuto approvato al V Congresso (1945) scompare la figura del “membro candidato” (sebbene sopravviva nella prassi almeno fino alla metà degli anni Cinquanta), ma ogni nuovo iscritto deve essere presentato da almeno due membri, i quali garantiscono “l’onestà morale e politica del richiedente” e “sono tenuti a fornire sul suo conto le necessarie informazioni” (art. 3).

Tuttavia è proprio a partire dal ’45 che il “partito nuovo” voluto da Togliatti apre le sue porte alle masse, archiviando per sempre il “partito di quadri” nato a Livorno: quell’anno gli scritti sono già 1.770.896 – nel ’21 erano 42.790 –, e l’anno successivo supereranno i due milioni. Soltanto nel ’56, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, il PCI scenderà sotto i due milioni di iscritti: ma ancora negli anni di Berlinguer i tesserati oscilleranno intorno al milione e ottocentomila.

Lo Statuto del 1956, approvato all’VIII Congresso (il congresso della “via italiana al socialismo”), dedica per la prima volta un apposito articolo alla tessera, il 56, con parole e toni che meritano di essere riportati per intero: “La tessera è il documento che attesta la regolare iscrizione del compagno al partito.

La tessera impegna alla solidarietà politica e morale di tutti i comunisti verso il compagno titolare di essa e di questi verso tutti i comunisti. La tessera esprime il legame che unisce tutti i comunisti e l’impegno di ognuno ad agire per il bene di tutti e di tutti ad agire per il bene di ognuno. La tessera è il documento di partito più prezioso: ogni comunista deve accuratamente custodirla, continuamente portarla con sé, presentarla e mostrarla con fierezza a tutti i lavoratori”.

Questa norma, che illustra oltre ogni dubbio il significato sacrale della tessera, resterà in vigore fino al 1979, quando il XV Congresso ne riscriverà una versione, per dir così, più laica (art. 60), che rimarrà fino allo scioglimento del Partito: “La tessera attesta la regolare iscrizione al partito e impegna il militante alla solidarietà politica e morale verso tutti i comunisti. Al compagno nuovo iscritto deve essere consegnata, con la tessera, una copia dello Statuto”.

La “campagna di tesseramento e di proselitismo” cominciava a novembre, e tutte le sezioni organizzavano per l’occasione feste, manifestazioni, assemblee allo scopo di far rinnovare le tessere già in essere e di reclutare nuovi iscritti. Ogni anno la Direzione del PCI fissava gli obiettivi che le singole Federazioni provinciali dovevano raggiungere. Per spronare gli attivisti, la Direzione nazionale metteva in palio numerosi premi: automobili per le Federazioni, libri, microfoni, radio (e poi televisori) per le sezioni e i Comitati di zona, abbonamenti all’“Unità” e a “Rinascita”, viaggi-premio in URSS e nei paesi socialisti.

Contromarca cartacea di una scelta di vita militante che nel tempo divenne poco più di un’adesione ideale, santino laico da ammirare e mostrare con orgoglio, prova di appartenenza ad una comunità vasta e insieme contrassegno personale, quasi intimo, la tessera ha accompagnato la vita di milioni di donne e di uomini, di giovani e di anziani, di oscuri militanti di base e di leggendari dirigenti rivoluzionari.

Quel cartoncino ripiegato che tutti portavamo nel portafoglio – così come le coccarde, i volantini, gli opuscoli, le medaglie, le cartoline raccolte in questo libro – è oggi il coriandolo colorato di un mondo che non c’è più: ne è un frammento minore e minimo, e tuttavia di grande significato sia per la storia dell’iconografia e della propaganda comunista, e dunque anche delle scelte politiche via via compiute dal PCI, sia per il valore sentimentale che ha rivestito nella storia soggettiva di chi in quel partito ha militato e, soprattutto, vissuto.

 

Non era un partito di carta. Rondolino e il Pci per immagini

Quel cartoncino ripiegato che tutti portavamo nel portafoglio – così come le coccarde, i volantini, gli opuscoli, le medaglie, le cartoline raccolte in questo libro – è oggi il coriandolo colorato di un mondo che non c’è più. Estratti dal libro di Fabrizio Rondolino, “Il nostro PCI”, che contiene oltre 700 illustrazioni tra il 1921 e il 1991, pubblicato da Rizzoli

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