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Onore e commozione nel ricordo di Luca Attanasio, il nostro ambasciatore d’Italia in Congo, e a Vittorio Iacovacci, il suo carabiniere di scorta.

Vedendo l’immagine di Attanasio riverso – pallido e morente – su un fuoristrada mentre lo portavano in un ospedale (dove ben difficilmente l’avrebbero comunque salvato) lungo quelle strade di polvere rossa non potevo che ricordare viaggi vicini e lontani tra quella stessa polvere che ti penetra sempre e – quando piove – diventa subito un fango spesso, pesante, quello che ti si attacca ovunque e resta tra i piedi di chi le scarpe neppure le ha.

Il “mio” Burundi, le cannonate in Rwanda, i tanti profughi che camminano verso il Congo nell’eterna lotta tra hutu e tutsi con le distruzioni e i massacri, le case di mattoni crudi abbandonate con i tetti bruciati e che così si sbriciolano presto.

Capanne buie, colline terrazzate dove si piantano fagioli in ogni punto possibile pur di avere qualcosa da mangiare, galline che piluccano tra le corsie ospedaliere (dove i pazienti devono farsi da mangiare da soli) in ospedali cadenti dove la cosa che ti colpisce di più è l’odore di marcio e di urina.

E intorno hai sempre tanti, tanti bambini.

Missionari e volontari eroici, quelli che spesso devono fuggire per le minacce di politici corrotti perché sono testimoni pericolosi. Insicurezza totale, campi profughi sterminati, giovani fumati e donne con i figli sulle spalle e le taniche d’acqua in testa, perché le fontane sono sempre lontane da casa e ogni volta devi risalire a piedi la collina con il fango che ti fa scivolare, eppure le taniche restano sempre diritte…

Ogni tanto passano i gipponi bianchi dell’ONU o delle grandi associazioni umanitarie con gli “altri” volontari, quelli che ben pagati lo fanno di mestiere e di solito vivono nelle ville nei quartieri “bene” delle capitali, quasi mai tra la gente disperata.

Intorno, uno scenario sempre uguale tra mille colline verdi, deforestate e popolate da formiche che sono una umanità povera, divisa, remissiva, paziente, che però ogni tanto si scatena in gesti di violenza inaudita di lotte tribali.

Come non ricordare quella mattina presto (avevo proprio l’età di Attanasio) di metà aprile – ero stato appena eletto deputato – quando nella foschia dell’alba per cinquanta metri sbagliammo direzione e finimmo in mezzo ai ribelli che controllavano la strada. Un albero di traverso per obbligarti a frenare e poi quegli occhi rossi dietro la punta del kalashnikov puntato diritto in faccia, con nemmeno il tempo di avere paura.

La vita che va e che viene, dipende dall’umore di quegli occhi rossi che ti fissano.

A noi andò bene e bastarono due pacchetti di sigarette per tornare indietro, ma soprattutto le parole tranquille e convincenti di un missionario saveriano che parlava bene il kirundo.

A Luca e Vittorio è andata male, routine della vita in Africa.

PS: Forse pochi sanno che una qualsiasi nostra ambasciata anche in Africa è “difesa” da pochissimi carabinieri – al massimo si contano sulle dita di una mano – e un assalto, un agguato, una qualsiasi aggressione può avvenire in un attimo e allora conta poco la difesa di una pistola d’ordinanza.

Altro che le scorte (inutili) per centinaia di politici e di Vip che scorrazzano con le auto di rappresentanza e le luci blu per le vie di Roma…

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Vedendo l’immagine di Attanasio riverso su un fuoristrada mentre lo portavano in un ospedale lungo quelle strade di polvere rossa non potevo che ricordare viaggi vicini e lontani tra quella stessa polvere che ti penetra sempre e, quando piove, diventa subito un fango spesso

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