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La competizione tra Stati Uniti e Cina ha fatto un ulteriore salto di qualità. Pechino ha approvato una legge che consentirà al governo di monitorare le esportazioni e vietare di fatto quelle ritenute più sensibili per la sicurezza nazionale. Si tratta della risposta simmetrica alla entity list varata dal dipartimento del Commercio di Washington lo scorso anno. La norma entrerà in vigore dal 1° dicembre.

È il sintomo di una rapida escalation commerciale tra i due colossi, ora sempre di più avvinghiati in un vortice di tensioni che non potrà che avere riverberi anche su altri mercati. Infatti, la legge varata da Pechino ricorre a un’ampia definizione del concetto di sicurezza nazionale, che include ben undici aree – politica, esercito, economia, cultura, società, scienza e tecnologia, informazione, ecologia, suolo, risorse e nucleare.

Inoltre, come riporta il sito Nikkei Asia, l’approvazione o meno delle restrizioni alle esportazioni all’interno di queste aree sarà subordinata all’impiego di otto criteri: “interessi di sicurezza nazionale, obblighi internazionali e impegni esterni, la tipologia degli export, la sensibilità degli articoli e la destinazione di quest’ultimi”. Più nello specifico, riportando la dicitura ufficiale dell’agenzia Xinhua News, si legge come “la Cina potrebbe prendere contromisure contro qualunque regione o paese che abusi delle misure di controllo e ponga una minaccia alla sicurezza nazionale e agli interessi cinesi secondo la legge”.

Di conseguenza, anche se il riferimento agli Stati Uniti non è esplicitato, è plausibile che le misure possano essere estese per sanzionare un più ampio numero di paesi e aziende che hanno un forte interesse ad accedere al mercato della Cina, sia nei servizi quanto nell’accesso a materie prime.

Tra queste, il caso delle terre rare è il più evidente dal momento che Stati Uniti e Unione europea – con qualche eccezione negli Stati Uniti nei settori più upstream – sono praticamente dipendenti da Pechino. Non solo. Anche il Giappone, che conta alcune delle aziende più all’avanguardia nella produzione di magneti al neodimio (NdFeb), rischierebbe di rivivere la crisi del 2010, quando un incidente diplomatico sulle isole Senkaku divenne il contesto per l’utilizzo geopolitico da parte di Pechino del suo monopolio strategico. I magneti sono tra le componenti più cruciali per la fabbricazione dei motori elettrici e delle turbine eoliche, dunque un eventuale restrizione all’export di disprosio e neodimio – due tra i heavy rare earth elements (HREEs) più difficili da estrarre e processare a condizioni economiche favorevoli – avrebbe inevitabili ricadute lungo l’intera supply chain.

La concretizzazione di uno scenario di tale portata è oggi, tuttavia, legato al consolidarsi di un trend del 2020, con o senza interventi in materia di sicurezza nazionale da parte delle autorità di Pechino. Lo scorso mese la China General Administration of Customs ha comunicato che le esportazioni di terre rare sono crollate del 62% rispetto allo stesso periodo l’anno precedente. Dalle 5489 tonnellate di gennaio-febbraio, si è passati a poco più di 2003 tonnellate.

“Se la Cina volesse davvero limitare le esportazioni di terre rare, ci sarebbero notificazioni e discussioni tra i clienti del mercato”, aveva commentato a settembre Chen Zhanheng, segretario generale dell’Association of China Rare Earth Industry. “Ma nulla di questo è avvenuto, dunque ciò ci induce a pensare che la decrescita sia dovuta alla pandemia”.

Qualunque siano le reali motivazioni, in un contesto di forte ripresa dell’economia cinese e in prospettiva di integrare le catene del valore dalle miniere ai mercati, la nuova legge sulle esportazioni potrebbe essere l’ennesimo campanello d’allarme per le ambizioni energetiche e tecnologiche occidentali.

“Il dominio cinese delle terre rare è solo la punta dell’iceberg”, hanno scritto sul Financial Times James Conway e Peter Ackerman Ma “se lasciato incontrollato, questo dominio diventerà una vulnerabilità strategica devastante per Stati Uniti ed Europa” dal momento che, in ossequio ai piani di de-carbonizzazione, “rischiamo uno scenario in cui passiamo da una dipendenza sui mercati del petrolio dominati dai Paesi Opec che non condividono i nostri obiettivi strategici, a una sulla Cina per le nostre future necessità di trasporto”.

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