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Mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte era in Cirenaica, “a liberare” (come hanno detto fonti di Palazzo Chigi) i pescatori siciliani tenuti da 108 giorni in ostaggio dei ribelli dell’Est libico, Formiche.net raccoglie una riflessione di Federica Saini Fasanotti, esperta di Libia della Brookings Institution.

Fasanotti ricorda innanzitutto un aspetto della vicenda che riguarda i pescatori italiani in ostaggio a Bengasi di cui aveva già parlato su queste colonne a ridosso del loro sequestro, avvenuto il 1° settembre: “Si trovavano a 35 miglia dalla costa libica, ma la Zona economica esclusiva per volontà di Gheddafi si estende per 74, e questo significa che ne erano all’interno, sebbene quell’estensione sia una decisione unilaterale del raìs non ratificata da nessun trattato internazionale: hanno preso un rischio, comprensibile perché in quelle acque il gambero rosso è più disponibile. Questo non significa che l’Italia avrebbe dovuto lasciarli lì, e non giustifica assolutamente le prepotenze haftariane”.

Il ruolo di Khalifa Haftar, il signore della guerra dell’Est libico, nella vicenda è emblematico della situazione nel Paese. Haftar ha usato lo sconfinamento come fattore politico con cui pressare l’Italia, un paese che l’ha sempre ritenuto “un interlocutore” (come lo chiama il premier Conte), sebbene lui ci ritenga ostili. L’atto contro i pescatori è una sorta di rappresaglia contro Roma, che ha mollato le relazioni con Bengasi sull’onda di un processo di stabilizzazione molto spinto dall’Onu – dove Haftar avrebbe dovuto avere (“giustamente”, secondo il pensiero di Fasanotti) un ruolo marginale.

In realtà sembra che quel processo proceda con molti problemi, con gli haftariani delegati che si stanno scontrando contro i rappresentati più vicini alla Fratellanza musulmana e si fatica a trovare anche soltanto l’accordo su come votare per decidere il processo di transizione. Tutto mentre con immani sforzi si sta cercando di far ripartire le attività economiche del Paese – l’accordo per riattivare la produzione petrolifera e quello sul tasso di cambio, intese facilitate dal lavoro del vicepremier libico Ahmed Maiteeg con Saddam Haftar, figlio del capo miliziano – e mentre Haftar ha ripreso vigore. E ora il rischio è che la vicenda dei pescatori gli dia un ulteriore spazio, anche solo una photo-opportunity.

Fonti vicine ad Haftar rivelano a Formiche.net che l’uomo forte della Cirenaica ha preteso la presenza delle massime autorità italiane e nell’incontro si è anche parlato dei negoziati in corso: dall’Est fanno sapere che l’ipotesi portata avanti dall’Onu che prevede un tandem composto dal presidente del parlamento HoR, Aguila Saleh, e dal ministro dell’Interno, Fathi Bashaga, non è “potabile”. Nell’incontro con gli italiani, Haftar e il figlio – raccontano le fonti – hanno fatto presente loro considerano Maiteeg come unico interlocutore in Tripolitania. Le stesse fonti confermano un ruolo attivo del vicepremier nella liberazione dei pescatori.

“A me sembra che ci sia poca volontà dei partecipanti al Foro di dialogo (il meccanismo di dialogo onusiano che è gestito da Tunisi, ndr) a mettersi d’accordo. L’assenza di un punto di incontro è anche frutto di un’immaturità generale a livello politico, dobbiamo essere onesti”, spiega Fasanotti: “Quando hai un Paese con più armi che abitanti, quando hai le milizie ormai radicate nel territorio, quando hai una società urbana dove il substrato tribale è andato sgretolandosi e la milizia offre un riconoscimento sociale, quando la classe politica ha deluso i cittadini per anni, beh allora credo che le Nazioni Unite dovrebbero prendere atto della situazione e fare un ulteriore sforzo”.

Fasanotti da tempo coltiva un’idea: creare un meccanismo di peacekeeping delle Nazioni Unite per aiutare il processo di stabilizzazione politico-diplomatico, proteggere i libici e favorire il disarmo del paese. L’Onu ha sotto certi aspetti pensato a un percorso simile, affidando però il compito del disarmo al cosiddetto “5+5”, il sistema di colloquio militare tra le due parti che ha il compito complesso di creare una sorta di contingente congiunto che dovrebbe disarmare le milizie. “Ci sono molte controversie ed è un sistema troppo debole però”, spiega l’analista, che anni fa sulla Libia ha fornito indicazioni al Pentagono.

Allora quale idea? “Penso che sarebbe possibile mettere un contingente armato dell’Onu a gestire il disarmo delle milizie, con un coordinamento diplomatico e tecnico molto ampio e strutturato”. In queste settimane abbiamo visto che ci sono stati movimenti sul terreno da parte degli attori esterni, come per esempio l’allungamento della missione turca votata il 12 dicembre dal parlamento di Ankara (che ha confermato il dispiegamento per altri 18 mesi). Sembra ormai chiaro che quei Paesi che hanno basi in Libia non hanno intenzione di abbandonarle il 23 gennaio, come previsto dalle volontà che l’Unsmil ha avanzato al Foro. E dunque, come abbinare questo con l’idea di una missione peacekeeping?

“È proprio per questo che credo, adesso più che mai, che l’Onu dovrebbe inviare in Libia una missione militare seria – spiega Fasanotti – per difendere le postazioni strategiche per il processo di stabilizzazione. Per come la vedo, la missione libica dovrebbe includere anche quegli stessi attori esterni, che in quel modo diventano così recuperabili. Non è militarismo, è una possibilità per dare ulteriore forza al percorso diplomatico”.

“Trasformiamo i cattivi in sceriffi“, dice Fasanotti: una forma di responsabilizzazione di alcuni degli attori esterni che ruotano attorno alla crisi. “Se riusciamo a fare in modo che i turchi si occupino del disarmo in Tripolitania, e l’Egitto della Cirenaica, li portiamo su un piano competitivo. Ossia, li portiamo a dimostrarsi gli uni più bravi degli altri su un terreno positivo, per acquisire riconoscimento di efficacia da parte della Comunità internazionale. E tutto per altro in un momento delicato in cui ai due presidenti serve spinta per tenere il consenso interno. E e potrebbe anche calmare certe ambizioni nelle loro politiche estere”.

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