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Indietro non si torna. Chi crede che l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca riavviti le lancette per tornare alla globalizzazione, al multilateralismo, all’europeismo rischia di rimanere deluso. La pandemia del Covid-19 ha cambiato definitivamente i vecchi paradigmi, spiega Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes, analista e saggista, in libreria con “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo). Il virus ha rimesso al centro del dibattito politico la questione dell’interesse nazionale. E ha svelato che a minacciarlo possono essere Stati, aziende, hacker dall’altra parte del mondo. O a una manciata di chilometri dal confine.

Aresu, Biden arriva alla Casa Bianca. Tempo di riassetti in Europa. Quali?

Non penso che l’Europa sia l’orizzonte primario degli Stati Uniti. Nel 2008 qualcuno pensò che Barack Obama sarebbe stato il presidente dell’Europa. Niente di meno vero, è stato il presidente democratico più estraneo al continente. Con Biden sarà diverso.

Perché?

Per una storia e una formazione personale, anzitutto. Ma le gerarchie europee rimarranno le stesse. Il rapporto complesso con la Germania, sia pure depurato da alcuni eccessi dell’era Trump. Con la Francia, per via del suo ruolo militare. L’Italia viene dopo.

In tanti nella maggioranza hanno esultato per la vittoria di Biden. Sopravvalutano l’impatto delle simpatie politiche del presidente sulla strategia americana?

Sono gesti di adesione politico-culturale, ma non sottovaluto così la nostra classe dirigente.

La Francia di Emmanuel Macron sembra aver tradito un po’ di nervosismo per il riassetto atlantico. È così?

Il nervosismo è uno stato permanente della Francia. È un Paese che si è sempre sentito ristretto dall’attuale assetto europeo, simile a un’estensione della catena del valore geoeconomica tedesca. Questo è il vero quesito che pende sull’Eliseo. Con quale Germania dovrà rapportarsi nei prossimi anni?

Una domanda cui saprà in parte rispondere il prossimo congresso della Cdu. L’Italia cosa deve temere dal dopo-Merkel?

Se un rischio c’è, è quello di un’introversione della Germania. L’Italia dovrebbe convincersi che la traiettoria dei rapporti fra Roma e Berlino non sarà per forza la stessa dei mesi scorsi. E va presidiata. La vicinanza politica e culturale fra noi non è più quella di quarant’anni fa. All’epoca Andreotti scriveva da ministro a Kohl su carta intestata della Dc.

In queste settimane si è registrata una particolare attenzione della politica, dell’industria e della finanza francese per l’Italia. Perché?

Non è un tema di breve periodo. È dai tempi della riunificazione tedesca che la Francia studia mosse di controbilanciamento con l’Italia. Nei primi anni ’90 anche Paolo Savona e Marcello De Cecco proposero l’integrazione industriale fra Italia e Francia, senza seguito. Vero è che negli ultimi anni in Italia ci sono state operazioni di rilievo geopolitico da parte francese, che hanno toccato il cuore dei nostri assetti industriali. Il 2021 sarà l’anno decisivo per le telecomunicazioni. Eccetto Fincantieri, resta un movimento bidirezionale, sui temi che contano davvero.

Cioè?

Bisogna capire la prospettiva della classe imprenditoriale italiana. Io dico sempre che lo specchio francese rimpicciolisce l’Italia. L’astratta separazione fra politica, industria e finanza tipicamente italiana è meno presente in Francia: Dassault, Pompidou, Esambert, Macron… Senza una struttura finanziaria rilevante non puoi mantenere in salute la capacità manifatturiera. E la struttura italiana è molto più debole nelle dimensioni, in ossequio allo sciagurato proverbio “piccolo è bello”.

Il Copasir ha lanciato un allarme sulle mire francesi nella finanza italiana. Siamo al già visto?

Sono cose che in parte sappiamo. Quel rapporto dice che esiste una divaricazione fra sistema bancario italiano e francese. La debolezza italiana (vedi Unicredit) genera dei problemi nei rapporti di forza. Ma se non vuoi che il tuo risparmio finisca in mano ai francesi devi creare delle alternative. Con gli attori italiani. Insomma, asset italiani più appetibili per i nostri imprenditori. Non solo Del Vecchio. Servirebbero 20 Romano Minozzi.

Nella stessa relazione c’è un faro sugli investimenti della Cina in Italia. Quanto in là si è spinto il capitalismo cinese nel nostro Paese?

È un fenomeno globale, bisogna fare delle distinzioni. Ora ci sono settori che non interessano più a Pechino perché loro sono molto più avanti di noi. In verità, il governo cinese sta lavorando per diminuire la dipendenza dell’economia dall’export e aumentare il controllo su alcuni mercati innovativi, il caso Jack Ma ne è un esempio.

Eppure solo un anno fa ha inaugurato in Europa la nuova Via della Seta.

L’errore è stato sopravvalutare la Belt and Road Initiative. In effetti, il Partito comunista cinese sembra quasi disinteressato. Dà molta più importanza alle sfide quantistiche o al mantenimento di una centralità nelle catene del valore manifatturiere, contro Vietnam e India. In Europa la priorità è la penetrazione digitale.

Dunque il 5G. Con Biden alla Casa Bianca proseguirà il pressing per escludere le aziende cinesi. Il governo italiano lavora al perimetro cyber. Basta?

La strada è quella giusta. Andava imboccata molto prima. Penso alle competenze da portare nello Stato per la certificazione dell’equipaggiamento cyber, ci siamo mossi con tre, quattro anni di ritardo. Sottomettere la sicurezza nazionale all’austerità è sempre da sprovveduti, nel senso tecnico di Carlo Cipolla: ti danneggi, avvantaggiando gli altri.

Si discute ultimamente della fondazione di un Istituto italiano cybersicurezza (Iic). È un passo avanti?

Di nuovo, affrontiamo un po’ di corsa temi che autocriticamente dovevamo porci anni fa. Per essere precisi, dovevamo porlo a fine 2015. Mentre si avviava la discussione sul tema cyber, bisognava studiare bene il modello anglosassone e dibatterne, anche a livello culturale, tenendo presente la legislazione sull’intelligence. Ora il tema richiede ampio consenso politico.

Un altro strumento a disposizione del governo è il golden power. È opportuno secondo lei che il gruppo di coordinamento a Palazzo Chigi colpisca con i poteri speciali allo stesso modo aziende americane e cinesi?

Una premessa necessaria: siccome le notifiche non sono pubblicate, manca un flusso informativo completo. Il controllo degli investimenti esteri ha sempre un elemento fisiologico di incertezza. Ora bisogna ridurlo, fugare dubbi interpretativi sulla normativa. E pubblicare una buona guida in inglese sui siti del governo.

Aresu, chiudiamo con una nota politica. Si dice spesso che la classe dirigente italiana manca di un pensiero strategico. Che effetto le ha fatto vedere un editoriale di Luigi Di Maio, tra i leader del Movimento Cinque Stelle, che richiama sulla Fondazione Leonardo la figura di Enrico Mattei?

La figura di Mattei è oggi consensuale nella società italiana e trova il rispetto dell’intero arco politico. Anche il ministro degli Esteri riprende il tema del “complesso di inferiorità” dell’Italia nel mondo. Mattei lo affrontò attraverso formazione e temi di frontiera (tra cui il nucleare). La “sete di Mattei” viene dal fatto che il nostro Paese non ha ancora affrontato pienamente il post-Guerra Fredda. Per guardare al futuro, uno sguardo al passato, a questo passato, può solo fare bene.

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