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Usa2020 non è ancora finita. Manca poco teoricamente per concludere lo scrutinio, e nella giornata di ieri ad alcuni network il vantaggio accumulato dal democratico Joe Biden in Pennsylvania è sembrato sufficiente per accreditargli la vittoria. Tecnicamente però la partita è aperta: ci sono diverse migliaia di schede da scrutinare.

La vittoria nel “Keystone State” potrebbe bastare a Biden per battere Donald Trump, con il repubblicano che potrebbe chiudere anche molto dietro perché mancano ancora i risultati di Nevada, Georgia, Arizona, tutto Stati dove il contender Dem è in vantaggio — poi ci sono anche Alaska e North Carolina, ma in questo caso è Trump a sembrare favorito.

L’incertezza sulla corsa elettorale va di ora in ora scalando, ma per Biden ora arriva un altro genere di problematicità: il percorso verso l’insediamento. Trump e i Repubblicani hanno già giurato battaglia (seppure con modo diversi, e non sorprende che quelli del presidente siano goffi, aggressivi e poco coordinati col partito).

Tecnicamente Trump potrebbe stressare i risultati elettorali attraverso azioni legali fino verso fine dicembre. Un paio di mesi infuocati dai quali è molto probabile che ottenga poco in termini pratici sul voto, ma sarebbero certamente devastanti per il futuro dell’amministrazione Biden. Le spaccature interne sarebbero approfondite dal gioco sulla polarizzazione che il presidente uscente guiderebbe parlando di brogli, scorrettezze ed elezioni rubate.

Tutti problemi che si sommerebbero sulla tenuta sociale del Paese, una delle questioni interne più stringenti per Biden. Elemento delicatissimo che si aggiungerebbe all’incertezza economica prodotta dalla pandemia, che non sembra fermarsi. Anzi, tra il monte di nuovi contagiati odierni (che negli Usa continua a segnare record mondiali dopo l’altro) da ieri sera c’è anche il capo di gabinetto di Trump, con l’evidente rischio di un nuovo focolaio alla Casa Bianca.

È certamente presto per fare un bilancio, ma di Usa2020 possiamo già dire che ha stupito per non aver prodotto risultati stupefacenti. Tutto quello che è accaduto e sta accadendo sembra frutto di una regia il cui copione era pubblico. A cominciare dal risultato: Biden è andato bene, per andare benissimo avrebbe dovuto prendere la Florida, dove secondo certe proiezioni avrebbe potuto vincere: vittoria che gli avrebbe subito assicurato la presidenza. Ma ha preso tanti, tantissimi voti: 75 milioni di elettori lo hanno scelto, mobilitati non solo per un referendum anti-Trump, ma anche attraverso un’offerta di governo (e quel numero di voti aumenterà, e con loro il distacco su Trump, se si pensa che ci sono ancora il 26 per cento di schede californiane e l’11 di quelle di New York da scrutinare; due aree dove i Dem sono fortissimi).

Biden è un candidato giusto, non eccezionalmente forte, frutto di una sintesi trovata in un partito che non è unito. Differentemente da quanto raccontato dai trumpiani (anche nostrani) per anticipare l’analisi della sconfitta, i Democratici faticano molto più a stare insieme di quanto non facciano — o abbiano fatto in questi quattro strambi anni di Trump — i Repubblicani. I giovani radicali, l’anima modernizzatrice, l’establishment classico, sono macro-gruppi che apparentemente hanno pochi punti di incastro. Uno di questi è riuscito in forma momentanea con Biden, forse anche perché per ragioni anagrafiche è un presidente che difficilmente sarà un candidato spendibile per due mandati, visto che dovrebbe chiudere il primo a 82 anni (e il secondo sugli 86).

Davanti a questo fattore di partenza (che vedremo come si snoderà sull’azione di governo futura) vanno sottolineati altri passaggi attesi di queste presidenziali. Su tutti, il voto postale: si sapeva che avrebbe favorito i Democratici, che lo hanno scelto anche come forma più sicura in termini sanitari, per evitare assembramenti ai seggi — pure i Repubblicani hanno provato a chiedere ai loro elettori di votare anche per posta, ma ormai era tardi: la narrazione anti-Covid sulla sicurezza dei seggi era già partita, e anche quella che raccontava il voto postale come vettore di brogli).

Contemporaneamente, altro elemento non stupefacente è l’importanza del Midwest. Le elezioni potrebbero essere decise dalla Pennsylvania anche perché Biden ha rivinto in Michigan (come fatto da tutti i candidati Dem dal 1992 a Trump) e in Wisconsin (come Barack Obama e Bill Clinton). È nel Midwest che Biden ha promesso agli elettori l’agenda sociale, elemento (oltre l’antitrumpismo) cui ha trovato sintesi interna tra le varie anime più di sinistra dei Dem. Ora, stando sempre sui risultati, questa agenda sarà certamente complicata se (come in buona parte previsto anche questo) il Senato dovesse restare repubblicano, diventando così (come con Obama) il centro nevralgico dell’opposizione.

Infine, come già accennato, ci si aspettava la reazione feroce di Trump, che non ha avuto remore a usare la Casa Bianca, cuore pulsante della democrazia americana, per accuse contro il processo democratico stesso. Brogli e cospirazioni che hanno portato a dichiarazioni forti e risposte altrettanto forti da parte dello sfidante (“siamo pronti a scortare fuori gli intrusi”, dice il Comitato Biden). Sarebbero ventotto anni che un presidente in carica non venie riconfermato (e prima era successo solo altre tre volte). Trump è già il secondo nella storia per voti assoluti ottenuti (battuto solo da Biden, appunto): il repubblicano più votato di sempre. Condizioni a contorno che potrebbero spingere la sua narrazione e anche la sua rabbia.

 

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