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Il braccio di ferro sulle modalità del prossimo dibattito tra candidati alla Casa Bianca dopo la positività di Donald Trump al coronavirus è culminato con il rinvio del confronto televisivo tra il presidente e lo sfidante Joe Biden. È la dimostrazione che il tycoon è ancora in grado di controllare l’agenda verso il voto? Formiche.net ne ha parlato con Maria Luisa Rossi Hawkins, corrispondente Mediaset da New York e autrice di “America virus America. Cronaca di una elezione infetta” (Piemme).

È ancora lui a dettare i tempi della corsa al voto del 3 novembre?

Sì. Trump sta dettando l’agenda delle elezioni, che continuano a essere un referendum su di lui, sulla sua salute, sul suo stato mentale: il focus si è spostato dalla sua agenda alle sue capacità.

Biden sembra lasciarlo fare. Perché?

Biden non ha fatto praticamente nulla in questa campagna elettorale. L’ha condotta di rimbalzo, senza delineare un’agenda propria, guardando e aspettando Trump per porsi poi come l’anti Trump. E, convinto del vantaggio nei sondaggi, perché dovrebbe cambiare quella che gli appare una strategia vincente?

Quattro anni fa i sondaggisti finirono nel mirino per aver dato per quasi certa la vittoria di Hillary Clinton. Oggi Biden sembra favorito. Rivedremo i fantasmi del 2016?

È la domanda di queste presidenziali. I sondaggi nel 2016 non hanno funzionato: la gente si vergognava a dire che avrebbe votato per Trump ma poi l’ha fatto. Queste elezioni sono diverse.

Perché?

Da una parte c’è una fetta della popolazione americana terrorizzata dal coronavirus che dunque non andrà alle urne o voterà per posta. Dall’altra c’è un pezzo di Paese che sostiene più o meno Trump, non è spaventata così tanto dal coronavirus e molto probabilmente andrà alle urne. Credo che i sondaggi abbiano spazio di errore: ancora non sappiamo bene quale sia la situazione in determinate contee, chi andrà a votare e chi no. Potrebbero esserci delle sorprese.

E se Trump dovesse perdere? Che farà?

Non credo lascerà la scena. La presidenza è un palcoscenico importante: forse lascerebbe la vita politica ma non quella pubblica. Si parla di un nuovo canale televisivo, in contrapposizione addirittura alla Fox che secondo il presidente ormai non è più dalla sua parte. Tuttavia, non credo che mollerà il boccino così facilmente. Ci si prepara, e i due schieramenti lo sanno bene, a una vera guerra dopo le elezioni del 3 novembre.

Una guerra?

Sì, e sottolineo questa parola. Ci sono dai 60 agli 80 milioni di voti che devono arrivare per posta. Inoltre, il voto del 3 novembre darebbe la vittoria a Trump mentre il conteggio di quelle schede la assegnerebbe a Biden. Nessuno dei due schieramenti è pronto a lasciare una posta in gioco così alta. Per questo, ci avviciniamo a una lunga, lunghissima elezione, molto probabilmente contestata, oltreché a un’ulteriore polarizzazione dello scenario politico americano.

A giudicare dall’età dei due candidati queste elezioni, comunque finiranno, potrebbero segnare la fine di un ciclo per entrambi i partiti.

Il dibattito vicepresidenziale è stato importante non tanto per vedere cosa sapessero fare Mike Pence e Kamala Harris, bensì perché si confrontavano due simboli: quello del vecchio Partito repubblicano e quello che dovrebbe essere il nuovo Partito democratico.

Dovrebbe?

Il Partito democratico si è compattato in questo momento soltanto contro Trump: è questo il grande favore che il presidente ha fatto alla sinistra. Ma rimane comunque un partito molto frammentato. Ricordiamoci, per esempio, che il Partito democratico non ha avuto il coraggio di scegliere candidati come Elizabeth Warren e Pete Buttigieg rifugiandosi in Biden come una grande bandiera in grado di abbracciare tutte le frange. Bisogna vedere cosa riuscirà a fare Biden se conquisterà la presidenza: chi sceglierà, quale agenda seguirà. Tutto passerebbe da quelle decisioni.

E il Partito repubblicano?

Trump, più che compattare il Partito repubblicano, se ne è impossessato facendone il suo partito. Ma al suo interno ci sono figure che non lo amano e anche alcune che lo vogliono addirittura spodestare. Non dimentichiamo i NeverTrumpers, per esempio. Il panorama è molto complesso: Trump oggi è comunque la figura di riferimento ma se dovesse perdere le elezioni assisteremmo a un’interessante riallineamento all’interno del partito ma anche a livello internazionale.

Che bilancio possiamo tracciare di questa corsa alla Casa Bianca?

È un campagna elettorale tutta forzata, infetta dal coronavirus, virtuale, in cui è impossibile fare domande e ricevere risposte: ogni candidato parla alla sua base nel tentativo di mobilitarla e portarla al voto. Ecco perché sarà un’elezione importante, difficile e sicuramente contestata.

Perché le elezioni saranno ancora un referendum su Trump. Parla Rossi Hawkins

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