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Un accordo storico per la Libia e i libici. E aggiungerei anche per i partner strategici del martoriato Paese mediterraneo.

La definizione di “accordo storico” potrebbe apparire come un’affermazione troppo esagerata, ma solo per chi non ha seguito da vicino l’evoluzione del sanguinoso conflitto intra-libico tra l’Est guidato da Khalifa Haftar e l’Ovest guidato da Fayez Sarraj, il grande coinvolgimento politico e militare di attori regionali e la macchina dell’odio alimentatosi tra le fazioni in conflitto, oltre alle centinaia di vite di giovani libici morti sul campo in entrambi i fronti.

La sigla del formale “cessate il fuoco”, avvenuta a Ginevra sotto la sapiente gestione della rappresentante ad interim della Missione Onu in Libia Stephanie Williams, rappresenta sì un grande accordo storico e una possibile e concreta possibilità di svolta nelle vicende libiche.

Aguila Saleh, il presidente del Parlamento di Tobruk e Khaled Mishri, il presidente dell’Alto Consiglio a Tripoli, i due protagonisti delle trattative, hanno dimostrato in queste ultime settimane una straordinaria volontà di andare oltre le classiche e legittime rivendicazioni abitualmente rinfacciate tra i due fronti. Saleh si è fatto spazio gradualmente nel difficile mosaico politico-militare di Bengasi, così come a Tripoli, Mishri, ha sfidato l’eterogenea composizione del Parlamento di Tripoli, facendo prevalere il pragmatismo nella ricerca di un’interlocuzione finalizzata alla ricerca di una soluzione alla drammatica situazione sociale in cui versa tutta la Libia e Tripoli in particolare.

Certamente non è farina del sacco dei soli leader libici. Va dato atto a tutti gli attori regionali in campo, che in certi casi anche per ragioni opposte, hanno “lasciato” lavorare i mediatori senza esercitare pesanti pressioni sulle componenti libiche. Questa finestra in cui, parallelamente, è maturata una trattativa militare (a Ginevra) e politica (a Rabat e poi Tunisi), sembra aver favorito una nuova consapevolezza nelle leadership emergenti libiche della concreta possibilità di trovare internamente una soluzione ad un conflitto che continuava contro gli interessi di tutti i soggetti in battaglia. Un esempio lampante è certamente il blocco delle produzioni di petrolio, dove a causa del conflitto e la conseguente azione ritrosia da parte di Haftar, per lunghe settimane, i libici si sono privati dei proventi dell’oro nero negando a tutta popolazione condizioni minime di approvvigionamento energetico e conseguente scarsità di elettricità sia a Tripoli sia a Bengasi.

Ovviamente ora si dovrà monitorare la fase di applicazione dell’Accordo, dove la grande incognita sarà il destino dei miliziani e mercenari stranieri, che in entrambe le formazioni hanno giocato certamente un ruolo strategico importante durante le fasi più accese della battaglia.

Il secondo nodo da sciogliere riguarderà la mappatura e la conseguente integrazione di tutte le formazioni militari presenti nel Paese in un quadro istituzionale unico. Un progetto ambizioso dove certamente l’Italia vanta un know-how riconosciuto a livello internazionale, vedi Afghanistan e Iraq per fare due esempi vicini, e su cui potrebbe e dovrebbe candidarsi fin da subito nel quadro della missione Onu in Libia.

Con il cessate il fuoco permanente, sarà interessante seguire l’evoluzione del dialogo politico già programmato, dopo i due appuntamenti in Marocco, a Tunisi a partire dal 9 novembre.

Sarà l’occasione per i protagonisti libici di saper dimostrare al loro popolo e alla comunità internazionale la loro capacità di aspirare all’interesse comune più alto rispetto agli appetiti di ciascuna fazione. Definire “insieme” gli assetti istituzionali previsti nell’Accordo di Skhirat non sarà un compito facile vista la frammentazione storica nella composizione sociale libica e la triste eredità lasciata da Gheddafi. Se ci riusciranno anche i più scettici questa volta dovranno ricredersi.

La Libia ha siglato un accordo (davvero) storico. Chaouki spiega perché

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