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A poche settimane dal successo della sonda Hope lanciata verso Marte è la volta del “political stance” assunto a livello internazionale da Mohammed bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi, alla testa degli Emirati. Eppure molti analisti non sono apparsi sorpresi dalla normalizzazione dei rapporti politici con Israele tramite i Patti di Abramo: il “principe perfetto” (New York Times), tanto riservato e ispirato alla saggezza dei padri quanto ambizioso per il suo popolo, non si sarebbe lasciato sfuggire la triplice occasione di offrire un assist alla corsa elettorale di Trump, rimettere a lucido la caratura diplomatica nell’area del Golfo e aprire, in maniera finalmente ufficiale, a rapporti con Israele.

Un disgelo a cui forse ha contributo per assurdo anche la pandemia, spesso trasformata dagli Emirati in occasione per l’esercizio della “diplomazia soft” con scrupolose credenziali umanitarie intessute con ben 47 Paesi, aiutati durante i mesi più duri di Covid, tra cui Iran, Yemen e, appunto, Israele. Anche nel GCC, Gulf Cooperation Council, d’altro canto, la pandemia è diventata cartina di Tornasole. E sempre più si configura come un banco di prova importante per le petromonarchie chiamate ad un appuntamento non più dilazionabile: il confronto con il modello del “rentier state” da loro incarnato. Un modello basato sulla redistribuzione delle rendite petrolifere, ancora indispensabili per una transizione, sia economica che sociale, sostenibile, oltre che pilastro della stabilità e del consenso politico.

Insomma, il mantra della diversificazione economica è in cerca di un punto di caduta nel quadro di riforme strutturali più ampie, spesso invocate dagli analisti, “Una sfida significativa per i paesi esportatori, compresi quelli del GCC che rappresentano un quinto della produzione mondiale di petrolio” (FMI, The Future of Oil and Fiscal Sustainability in the GCC Region). Dagli aggiustamenti fiscali, ai monopoli locali, dall’ingente spesa pubblica alla correlata segmentazione del mercato del lavoro, suddiviso tra cittadini, impiegati negli apparati statali, e lavoratori stranieri, tanto i workers del Sud-est asiatico del romanzo “Temporary People”, quanto avvocati, medici, dirigenti, spesso occidentali, che si vorrebbe sostituire con figure locali.

È proprio a questo che mira infatti la grande campagna dell’Emiratizzazione regolata dal 1980 con tanto di leggi federali e gestita da un apposito ministero delle Risorse umane: analoghi processi di Saudizazzione o Qatarizzazione dimostrano che per le monarchie del GCC è ormai cruciale sanare il gap competitivo nel prestigioso campo della “knowledge economy” e dotare le future generazioni di expertises ancora non pienamente padroneggiate nell’incerto scenario del post-oil.

È in questo quadro che diverse società di advisory sull’internazionalizzazione ritengono che si debba pensare al calendario e all’occasione offerta da Expo 2020 rinviata di un anno. Mettere a profitto i tempi supplementari creati, per assurdo, proprio dal Covid, mirando alle nuove opportunità di investimento nell’area del Golfo. Perché se nel 2009 ha suscitato molta attenzione l’inaugurazione dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili Irena, (per altro diretta dall’italiano Francesco La Camera) nell’eco-città di Masdar City alle porte di Abu Dhabi, una delle capitali dell’oro nero, oggi la pandemia ha messo in luce nuove necessità. A partire dal cibo. Dopo i blocchi causati da Covid, in una regione in cui la terra coltivabile arriva all’1% e i generi alimentari importati raggiungono il 90%, un ruolo sempre più importante è rivestito dalla sicurezza e autosufficienza alimentare.

Qui il futuro, infatti, è rappresentato anche dall’agritech, dall’indoor farms, da avveniristiche coltivazioni verticali e idroponiche, oltre che da approvvigionamenti che però, ad oggi, arrivano ancora in gran parte dall’Asia. I governi del GCC stanno puntando con grandi investimenti anche sull’acqua e sulla desalinizzazione, di cui detengono oltre l’80% della capacità globale, producendo circa il 40% della desalinizzazione mondiale (Mena Desalination Projects Conference, Abu Dhabi, marzo 2020). Se l’Arabia Saudita rappresenta il più grande mercato al mondo con un’aspettativa d’investimento pari ad 80 miliardi nei prossimi 10 anni, l’Emirato di Abu Dhabi entro il 2022 completerà l’impianto di Al Taweelah, il più grande mai costruito, capace di produrre più di 900 mila metri cubi al giorno. Altro tema che interessa il prossimo futuro del crescente consumismo mediorientale è anche quello dell’economia circolare.

Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) stima che i rifiuti solidi urbani generati nel GCC alla fine del 2016 erano di circa 27 milioni di tonnellate, con un aumento fino al 5% su base annua. In attesa di cambio di passo anche culturale e comportamentale, la strada che si intende percorrere sarà in gran parte quella del recupero energetico, il Waste-to-energy: la società emiratina Bee’ah in collaborazione con Masdar, prevede di convertire 47 ettari della discarica in un impianto ad energia solare capace di generare 42 megawatt di energia all’anno. Sarebbe il primo del suo genere nel Middle East.

Insomma, a partire dall’entusiasmo messo in campo dai 192 paesi coinvolti, Expo 2021 e gli Emirati possono assumere, a livello internazionale, un valore simbolico formidabile quale sede di rilancio per l’economia mondiale, al ritmo del claim “Connecting minds, creating the future”. E qui l’Italia parte da una posizione forte. Nel 2019 gli Uae sono il 9^ mercato di destinazione dell’export Italiano, con quota di mercato del 2,8%. “Siamo il secondo esportatore europeo negli EAU dopo la Germania” dice Nicola Lener, ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, ricordando che 2019 l’interscambio tra l’Italia e gli Emirati Arabi è stato pari a 5,5 miliardi di euro, con 4,6 miliardi di esportazioni italiane a fronte di 900 milioni di importazioni dagli Emirati. “Vantiamo un avanzo commerciale di 3,7 miliardi di euro – aggiunge Lener – che equivale ad oltre l’80% dell’avanzo commerciale dell’Italia con tutti i Paesi del GCC. C’è una grande domanda di prodotti italiani, dai beni di consumo ai macchinari industriali alla componentistica che sostiene la diversificazione promossa in settori come quello energetico”.

E chissà che dopo il lancio della sonda Hope verso Marte, non nascano nuove relazioni anche con l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) nel campo della space economy. Gli Emirati restano inoltre un irrinunciabile anello di congiunzione. Hub globale per il trasporto di merci e passeggeri, a cavallo tra Oriente e Occidente, prima del Covid, Dubai International Airport era primo al mondo per traffico internazionale di passeggeri e terzo per traffico totale. Risale al 1976, in pieno fervore “costituente”, la lungimirante idea del sovrano di Dubai Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum, di avviare la costruzione del più grande porto artificiale del mondo, Jebel Ali, a 30km da Dubai, ragion per cui oggi la forza logistica emiratina è espressa anche da un asset marittimo strategico come DP World, una delle più importanti compagnie di gestione portuale, con circa 70 terminali in giro per il mondo. Dai porti commerciali controllati o in concessione a Fujairah, con cui si aggira lo stretto di Hormuz, a quelli nel Corno d‘Africa, alle porte dell’altro cruciale choke-point di Bab-el-Mandeb, gli Emirati si allargano su una rete che copre tutti i continenti. “Abbiamo un’abitudine all’eccesso che dobbiamo limitare” ha detto Sheikh Mohamed bin Zayed, durante la conferenza sulla sicurezza alimentare tenuta nel maggio scorso, in piena emergenza Covid. Solo pochi giorni prima l’Arabia Saudita annunciava misure “dolorose”, riferendosi al triplicare dell’IVA passata al 15% e alla sospensione dell’indennità per la pletorica forza lavoro statale. È di pochi giorni fa la notizia che il Bahrein ridurrà del 30% la spesa di ministeri, mentre il Kuwait, a causa del crollo del petrolio, annuncia di non avere abbastanza cash per pagare gli statali a partire da ottobre. Un fraseggio inaudito nell’immensa zolla di sabbia incastonata tra il Golfo e il Mar Rosso e che ora suona come una sveglia: se il patto sociale non è a rischio, le economie del GCC, con l’aiuto di investimenti esteri, devono più che mai portare a compimento il proprio processo di modernizzazione.

Anche là dove, come negli Emirati, un’esigua popolazione con forti tradizioni locali riesce mirabilmente a convivere con forti desideri consumistici, rimanendo in equilibrio sul complesso sistema giuridico che regola gli affari: la Sharia islamica, la Civil Law occidentale e la Common Law britannica delle freezone finanziarie di Dubai e Abu Dhabi, DIFC e ADGM. Pare che l’antica Dubai si chiamasse Wasl, che significa ‘connettere’, ‘legare’, ‘intersecare’, un nome che suona come una promessa mantenuta anche dal futuro cuore di Expo 2020, Al Wasl Plaza, la cui copertura è realizzata da Cimolai Rimond. E se per 170 anni l’Esposizione Universale è stato un evento “non politico”, tale rimarrà anche il prossimo anno. Ma dopo il blackout diplomatico seguito all’uccisione a Dubai nel 2010 di un importante esponente di Hamas, sarà difficile non notare la presenza del padiglione di Israele, che oggi assume un significato ancora più forte alla luce dei recentissimi Accordi di Abramo. Quasi fosse un cerchio che si chiuderà, magari proprio nel 2022, quando sarà concluso l’Abrahamic Family House, il complesso interconfessionale comprendente una Sinagoga, una Chiesa e una Moschea. Sorgerà a Saadiyat Island, isola di Abu Dhabi già sede del Louvre e presto anche del Guggenheim e del Zayed National Museum, intitolato al padre fondatore degli Emirati, Sheikh Mohamed bin Zayed. Proprio il carismatico demiurgo della storia emiratina, da cui tutto è partito.

Expo2020 e space economy, gli Emirati fanno sul serio...

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