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Un po’ il classico boomerang. Per fare un dispetto agli Stati Uniti, quando infuria, nonostante le prime, timide, trattative, la guerra dei dazi, la Cina si fa male con le proprie mani. Succede questo. Tra le varie rappresaglie messe in atto dal Dragone, c’è lo stop alle esportazioni verso gli Stati Uniti. Un po’ perché con le tariffe al 145% costa molto di più piazzare le merci sul mercato statunitense, un po’ perché in questo modo Pechino vuole privare la prima economia globale dei suoi flussi commerciali, ancora strategici, o quasi, per molti settori dell’economia americana. Ma il buco rischia di essere più largo della classica toppa.

Perché? Premessa: oggi la Cina sconta un serio problema di deflazione, ovvero di prezzi compressi e anemici, che non riescono più a tirare per colpa di un eccesso dell’offerta sulla domanda. Lo si è visto, principalmente, con il mattone dove i prezzi delle case sono crollati, mandando al macero un comparto che vale, o forse valeva, il 25% del Pil cinese. E poi anche con l’acciaio, dove la siderurgia ha subito un brusco rallentamento. Ora, nella testa di Xi Jinping c’è l’idea di trattenere in patria tutte quelle merci che non prendono più la via degli Stati Uniti, aumentando così ulteriormente l’offerta di beni domestica, nella vana speranza che il mercato riesca ad assorbire il surplus.

Ed è proprio questo il punto. Aumentare l’offerta vuol dire deprimere ancora di più i prezzi, con tutte le conseguenze del caso. Prima tra tutte impiombare ancora l’economia. Qualcuno ha già fatto il conto della scelta cinese. Per l’intero 2025, per esempio, Goldman Sachs prevede che l’inflazione al dettaglio in Cina scenderà allo 0%, rispetto alla crescita annua dello 0,2% del 2024, e che i prezzi all’ingrosso diminuiranno dell′1,6% rispetto al calo del 2,2% registrato lo scorso anno. Nonostante le crescenti richieste di stimoli più incisivi, molti economisti ritengono poi che Pechino probabilmente aspetterà di vedere segnali concreti di deterioramento economico prima di ricorrere, nuovamente, alla potenza di fuoco fiscale.

Insomma, se da una parte il Paese si sta impegnando per aiutare gli esportatori a dirottare le vendite sul mercato interno, tale mossa rischia di trascinare la seconda economia mondiale in una deflazione ancora più profonda. “L’effetto collaterale potrebbe essere una feroce guerra dei prezzi tra le aziende cinesi”, ha affermato Yingke Zhou, economista senior per la Cina presso la Barclays Bank. E la “deflazione dei prezzi all’ingrosso in Cina probabilmente aumenterà al 2,8% ad aprile, dal 2,5% di marzo. Riteniamo che l’impatto dei dazi sarà più acuto in questo trimestre, poiché molti esportatori hanno interrotto la produzione e le spedizioni verso gli Stati Uniti”.

Il problema, comunque, viene da lontano. Già nel primo scampolo del 2025 le pressioni deflazionistiche erano una minaccia importante per la crescita della grande economia asiatica. Secondo il National Bureau of Statistics, l’inflazione ha registrato a marzo un decremento tendenziale dello 0,1%, dopo il -0,7% del mese precedente e rispetto al +0% atteso dagli analisti. In particolare, i prezzi di generi alimentari, tabacco e alcolici sono diminuiti dello 0,6%. Tra i prodotti alimentari, il prezzo della carne di maiale è aumentato del 6,7% Rispetto al mese precedente, invece, i prezzi al consumo mostrano un decremento dello 0,4%, a fronte del -0,2% del consensus, dopo il -0,2% precedente. Quando il gioco non vale la candela.

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Per mettere in difficoltà Washington, il Dragone sta cercando di trattenere in patria le merci ancora utili a certi settori dell’economia statunitense. Ma così facendo si aumenta l’offerta in casa propria, affossando ancora di più i prezzi e zavorrando la crescita

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