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Il colosso energetico cinese PetroChina ha annunciato di aver scoperto un giacimento di gas naturale da oltre 100 miliardi di metri cubi nella regione nord-occidentale cinese dello Xinjiang. Si tratta di “un importante passo avanti nell’esplorazione del gas” nel bacino della Zungaria, “che garantirà l’approvvigionamento di gas della nostra azienda e contribuirà alla stabilità e alla prosperità della regione”, ha dichiarato Huo Jin, direttore generale della filiale di PetroChina nello Xinjiang, all’agenzia di stampa ufficiale Xinhua.

LE ULTIME SCOPERTE

Come ricorda l’agenzia Reuters, lo Xinjiang è tra le migliori aree per l’esplorazione interna e il gigante statale dell’energia ha promesso di spendere 150 miliardi di yuan (22,9 miliardi di dollari) tra il 2018 e il 2020 per aumentare la produzione totale di petrolio e gas nella regione portandola a un milione di barili al giorno di petrolio equivalente. Questo nuovo ritrovamento segna un ulteriore passo avanti nello sviluppo del gas naturale della compagnia petrolifera nella regione, dopo una scoperta di dimensioni simili nel bacino di Tarim nel settembre dello scorso anno.

PERCHÈ LO XINJIANG CONTA

Poche settimane fa Giulia Sciorati dell’Ispi analizzava la situazione dello Xinjiang sottolinea come questa regione sia “un passaggio obbligato nei progetti della Nuova via della seta” a cui l’Italia ha aderito tramite un memorandum d’intesa nel marzo dell’anno scorso. “La stabilità interna di questa regione”, continua l’esperta, “si è ora trasformata in una priorità chiave anche per la politica estera di Pechino oltre che per quella di sicurezza”.

E I DIRITTI UMANI?

Lo Xinjiang, però, è oggetto delle preoccupazioni della comunità internazionale. La scorsa settimana veniva pubblicato un rapporto del professor Adrian Zenz per il Center for Global Policy che rivelava prove significative (ossia documenti interni del regime cinese) di “violazioni dei diritti umani”, con sospette pratiche di lavoro forzato ai danni degli uiguri e di altre minoranze musulmane turche. Come ricordavamo, pochi giorni prima l’amministrazione statunitense di Donald Trump aveva annunciato la decisione di bloccare l’importazione di cotone e prodotti lavorati da una potente organizzazione paramilitare cinese dello Xinjiang, regione che produce più del 20% del cotone mondiale e l’84% per cento di quello cinese. Inoltre, New York Times e Washington Post hanno rivelato il ruolo che colossi cinesi come Alibaba e Huawei avrebbero nel regime di sorveglianza degli uiguri imposto dalle autorità.

IL NODO EUROPEO

A chiarire quanto la questione uigura sia centrale per le politiche di Pechino (con responsabilità indirette anche dell’Occidente) Francesca Ghiretti dello Iai che analizzava ieri su Formiche.net l’accordo comprensivo sugli investimenti tra Unione europea e Cina (Cai) che giungerà a conclusione entro fine anno. La Commissione europea, notava l’esperta, ha annunciato la vicina chiusura degli accordi a poche ore di distanza dall’approvazione da parte del Parlamento europeo di una risoluzione in difesa degli uiguri con tanto di invito all’esecutivo a “includere” nell’intesa “impegni adeguati” da parte cinese verso “il rispetto delle convenzioni internazionali contro il lavoro forzato”. L’ironia? Ecco cosa scriveva Ghiretti: “Il Cai si firmerà ma senza la condizione che vorrebbe l’abolizione del lavoro forzato in Cina, lavoro forzato che è proprio elemento alla base della risoluzione del Parlamento. In realtà, la firma del Cai non impedirebbe all’Unione europea di applicare sanzioni per gli avvenimenti nello Xinjiang o per altro, ma il problema qui non è la pratica bensì l’incoerenza del messaggio. Questa volta, per giunta, la divisione non è tra i diversi interessi degli Stati membri, ma tra istituzioni. In questo caso il messaggio è arrivato forte e chiaro, gli interessi economici dell’Unione vengono prima di tutto”.

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