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Ora che le luci della ribalta si sono spente sull’esito del referendum, che è risultato meno plebiscitario dell’iniziale previsione, e mentre attendiamo che seguano le complementari riforme proclamate come indispensabili, possiamo anche fare, sine ira ac studio, qualche ulteriore riflessione su quanto il nuovo assetto numerico delle Camere si riveli in linea coi principi fondamentali che informano la nostra Costituzione in tema di rappresentanza democratica del popolo, cui appartiene il diritto di esercitare la sovranità nazionale nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Se si fa eccezione per qualche estemporanea uscita del comico di turno, di livello più o meno elevato, credo che sia patrimonio comune di tutti gli operatori della politica, oltre che dell’intera Accademia, che la nostra Repubblica si basa sulla democrazia rappresentativa, e che essa cesserebbe anche di essere “tout court” una vera democrazia ove fosse messa in dubbio la rappresentatività effettiva, non solo formale, del suo Parlamento, cioè dell’istituzione nella quale la rappresentanza cessa di essere un concetto astratto e s’invera nelle persone fisiche di volta in volta delegate a esercitare la sovranità popolare, dettando le regole della convivenza sociale, investendo fiduciariamente chi ha il compito di governare e poi controllandone l’attività.

E dunque, ogni volta che andiamo a votare, affidiamo a qualcuno al di fuori di noi la nostra piccola particella di sovranità, come usava dire Temistocle Martines, il Maestro di tutti i costituzionalisti di ieri e di oggi, e, se mi è consentito, un po’ anche il mio, che proprio con lui mi sono laureato, ormai tanto tempo fa.

Ed è proprio per questo che c’è oggi chi si sta chiedendo se questo taglio lineare del numero dei parlamentari, non finisca per incidere anche su questa nostra piccola particella di sovranità e su quella del territorio in cui c’è toccato di vivere, limitando o condizionando la nostra libera scelta di affidarla a qualcuno che rappresenti la Nazione e, indirettamente, anche noi stessi..

E quindi, in definitiva, se non risulti violato qualcuno dei principi fondamentali che informano la nostra Costituzione, rendendo di fatto più difficile l’effettivo esercizio della sovranità popolare, anche al di là della volontà di chi ha preso l’iniziativa della riforma, di chi l’ha quasi unanimemente approvata in Parlamento, e degli elettori che l’hanno infine confermata con una maggioranza significativa ma tutt’altro che plebiscitaria, oltretutto così dimostrando l’esistenza di un qualche scollamento tra il Paese legale e quello reale, che più non si rispecchia nel primo.

Insomma, c’è da chiedersi se questo taglio di poltrone, com’è stato chiamato anche sceneggiandolo in termini alquanto volgari, possa avere interrotto quel filo che lega la nostra piccola quota di sovranità all’effettiva possibilità di esercitarla, attraverso la delega che di volta in volta affidiamo al Parlamento perché, insieme alle altre Istituzioni del Paese, possa contribuire a tutelare i nostri inviolabili diritti costituzionali.

Tanto per esemplificare, pensiamo che spetti al Parlamento di garantire e giammai violare o consentire che siano violati: i nostri diritti individuali e sociali (art. 2 Cost.), la nostra dignità sociale ed eguaglianza legale (art. 3), il nostro effettivo diritto al lavoro o a una qualche attività (art. 4, 35 e segg.), la nostra autonomia territoriale (art. 5), la nostra minoranza linguistica (art. 6), la nostra cultura e il nostro ambiente paesistico, storico e artistico (art. 9), la nostra libertà personale (art. 13), il nostro domicilio (art. 14), la nostra corrispondenza (art. 15), la facoltà di circolare liberamente all’interno e verso l’estero (art. 16), di riunirci pacificamente (art. 17) e di associarci liberamente (art. 18) anche in sindacati (art. 39) e in partiti (art. 49), di scioperare (art. 40) e d’intraprendere (art. 41) e di possedere i frutti della nostra attività (art. 42), di esercitare il nostro culto religioso, quando l’avessimo (art.19 e 20), di manifestare il nostro pensiero in ogni modo (art. 21), di esercitare i nostri diritti di cittadinanza (art. 22), di proteggere i nostri diritti personali e patrimoniali  (art. 23 e 24), di avere un giudice naturale  precostituito (art, 25) e di non essere considerati colpevoli sino a sentenza definitiva (art. 27), di risparmiare (art. 47); di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza (art. 50), e, last but not least, di esercitare liberamente l’eventuale mandato parlamentare (art. 67).

Un elenco imponente di diritti (e certo ne dimentico qualcuno), taluni considerati valori supremi, tali altri comunque fondamentali, che rende più che lecita la curiosità di chi si è chiesto se la riduzione del numero dei parlamentari ci abbia reso meno liberi di prima, e se per caso, dovendo condividere con tante più persone la nostra delega rappresentativa, non si sia in qualche modo diluita, e si sia quindi ridotta,  anche la nostra piccola quota di sovranità nazionale.

E poi, se la domanda venisse posta alla Corte Costituzionale, nei modi e termini consentiti dall’ordinamento, quale potrebbe esserne la risposta?

In verità, la Corte, al di là dell’espressa disposizione che rende immodificabile la forma repubblicana (art. 139 Cost.), si è più volte posta il problema dell’implicita immodificabilità dei principi supremi o dei valori fondanti, e ha più volte ritenuto che la loro tutela non si arresta neppure di fronte a una legge costituzionale che in qualche modo ne limiti la portata o li violi, e ciò sulla considerazione che la rappresentanza democratica, che pure nel voto trova la sua massima possibilità di espressione, tuttavia non si esaurisce in quello specifico momento, ma si estende anche a una serie di attività in cui ogni volta si manifesta concretamente la possibilità offerta dalla Costituzione di concorrere alla determinazione del nostro individuale vissuto, oltre che di quello della società cui apparteniamo e anche dell’Umanità cui siamo accomunati.

In fondo, lo sosteneva anche J. J. Rousseau, tanto evocato ai giorni nostri, quando affermava che s’inganna il popolo che ritiene d’esser libero per il solo fatto che può votare.

In questa direzione vanno proprio le pronunzie della Corte che s’iscrivono in un lungo percorso: iniziato, quasi timidamente, con le sentenze n. 30 e 31 del 1971, allorché è stato affermato in via di principio che la tutela dei valori costituzionali supremi non si arresta di fronte all’implicita copertura costituzionale delle leggi di attuazione dei Patti Lateranensi richiamati dall’art. 7 Cost.; è proseguito poi attraverso le successive sentenze su taluni Statuti delle autonomie regionali speciali e sullo stesso trattato istitutivo della CEE; e si è infine concluso con la sentenza 1146 del 15 dicembre 1988, in cui la Corte ha lapidariamente affermato che “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art, 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.

Certo, resta aperto il problema di come individuare in concreto, tra i tanti diritti esplicitamente affermati dalla Costituzione, quali possano essere implicitamente considerati come rispondenti ai valori supremi che li rendano irrevisionabili, e penso che la risposta più coerente con l’intera metodica liberaldemocratica della Costituzione sia quella di considerare come tali quelli che mirino a garantire i diritti universali degli esseri umani e la sovranità popolare, ma anche il pluralismo politico, la rappresentanza parlamentare, il suffragio universale, la separazione e il reciproco controllo tra i poteri, oltre che, ovviamente, i diritti esplicitamente affermati come inviolabili dalla stessa Costituzione.

A questo punto, a chi ha chiesto se la riduzione del numero dei parlamentari non si sia anche tradotta in un qualche vulnus a taluni dei principi supremi della democrazia rappresentativa, in termini che siano costituzionalmente giustiziabili, la mia risposta d’incorreggibile liberale mi porterebbe a dire che avverto questa riforma come se mi fosse stata sottratta una piccola porzione della mia quota di sovranità popolare, con una qualche violazione anche dei valori supremi della nostra Costituzione.

E tuttavia – salvo forse il caso della mancata tutela di alcune minoranze linguistiche particolarmente penalizzate (com’è il caso del Friuli V. G.), rispetto ad altre eccessivamente tutelate (com’è il caso del Trentino A. A.) – devo riconoscere che, di per sé, questa riduzione – avendo riguardato solo un terzo dei parlamentari, in termini che giudico sbagliati e scoordinati rispetto all’Ordinamento, ma che sono tuttavia opinabili – non sembra confliggere  coi principi supremi dell’ordinamento costituzionale.

Certo, se domani qualche riformatore di turno pensare di attentare al supremo valore del libero mandato parlamentare, solennemente affermato nell’art. 67 della nostra Costituzione, come si è provato a fare nella scorsa Legislatura, esplicitamente (col ddl Cost. n. 2759-AS) o implicitamente (col ddl Cost. n. 196-AS), la mia conclusione sarebbe ben diversa, e penso che in tal caso la Corte Costituzionale potrebbe essere chiamata a dire la sua, come ha già fatto in passato con la sentenza 14 del 1964, nella quale ha affermato che “nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”.

Chi oggi propone di introdurre il vincolo di mandato non si rende conto che esso rispondeva a una concezione meramente individuale-privatistica-corporativa della rappresentanza, tipica dell’ancien régime, ma addirittura risalente a epoche ancora più lontane, e fu travolto dalla Rivoluzione Francese a partire dalle Costituzioni del 1791 e del 1793, per essere poi introdotto nuovamente nel breve e sanguinoso periodo della Comune di Parigi (1871).

Non per niente, il vincolo fu ovviamente affermato anche nelle Costituzioni dell’URSS (art. 107 della Cost. 1936 e art. 142 Cost. 1947), per le quali il deputato aveva “l’obbligo di rendere conto del suo lavoro e del lavoro del Soviet agli elettori ed anche ai collettivi ed alle organizzazioni sociali che lo hanno presentato come candidato a deputato”, introducendo a tal fine un meccanismo di revoca affidato al voto palese delle strutture di base del PCUS (sindacati, Komsomol, organizzazioni sociali, collettivi di lavoro, etc.); e qualcosa del genere fu prevista anche negli altri Stati del socialismo reale: artt. 1, 5 e 87 Cost. Polonia 1952; artt. 56 e 57 Cost. D.D.R. 1974.

Sarebbe un brutto salto all’indietro, nel peggio di un passato assolutamente incompatibile con i valori supremi della nostra Costituzione, che il riformatore costituzionale di oggi dovrebbe accuratamente evitare di violare.

Così, tanto per risparmiarci un altro referendum, che, la prossima volta, potrebbe avere un esito ben diverso.

Il referendum di ieri e quello di domani (sul vincolo di mandato). Il vademecum di Palumbo

Di Enzo Palumbo

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