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Divenute categorie, destra e sinistra hanno a lungo rappresentato nel pensiero politico moderno (e italiano in particolare) i due “orientamenti” degli attori dell’azione politica. Hanno indicato (nel senso nobile di coloro che vi si riconoscevano) la tendenziale adesione alla tradizione (con ogni ricaduta di ordine morale, economico e sociale) ovvero l’altrettanto tendenziale impegno a ridurne/superarne l’eredità. Naturalmente con diversa intensità “interna”, che apriva perciò lo spazio ad un “centro” sincretico, nel quale si sono a lungo riconosciuti molti. Nessuno dei due orientamenti era, del resto, chiuso alle ragioni dell’altro. Ne faceva fondamentalmente una questione di priorità/intensità di demarcazione della propria azione.

La situazione è nell’ultimo trentennio profondamente mutata. Il centro, espresso in Italia per alcuni decenni dalla Dc, ha finito di esserlo con la scomparsa di quella formazione. Nessuno è riuscito a farne rivivere l’esperienza. E destra e sinistra hanno tendenzialmente occupato (nel linguaggio soprattutto degli osservatori) l’intero campo.

E tuttavia non è accaduto solo questo. È accaduto anche che sono cambiati i “confini” di rilevanza del pensiero politico. In un mondo sempre più interconnesso, quello “nazionale” è divenuto sempre più regressivo. Viviamo influenzati (e significativamente) anche dal pensiero che matura altrove. Gli “schieramenti” che contano tendono a farsi universali. E a fondarsi dunque su un criterio “distintivo” sempre meno identificabile con il contesto nazionale. Si vanno spostando su un terreno “morale”. Precedono l’azione politica momentanea. Si formano sulla base di una “bussola” più universale, e perciò anche inevitabilmente più generica.

In questo cambiamento di prospettiva, si inserisce la novità di questi ultimi decenni. Le due posizioni (destra e sinistra) tendono a non ricevere più considerazione “neutra”. Chi le utilizza non descrive più. Giudica. L’atteggiamento è generale (e supera ormai da anni i confini nazionali). Ma non è anche (o almeno sembra a me) parimenti “aggressivo”. Lo è di più da sinistra. Nel che sta l’essenza a mio modo di vedere della “crisi” e delle difficoltà (espansive) della nostra sinistra.

In una recente intervista a Repubblica, un noto storico britannico ha visto nella propensione a guardare le cose dal lato degli oppressi la giustificazione del suo “sentirsi” di sinistra.

C’è sicuramente del vero in questa considerazione. Non conosco alcuno dei miei amici “di sinistra” che non vi si riconoscerebbe senza esitazione alcuna. E, per quanto posso dire, spesso anche con piena giustificazione. E tuttavia essa contiene due insidie molto pericolose.

Da un lato, induce implicitamente a collocare a destra ogni oppressore. Dall’altro, assegna il compito della denuncia alla sinistra (quasi che non possa meritare attenzione se non quella proveniente appunto da quella parte). Due conseguenze alle quali si ribellerebbe certamente per primo l’autore della considerazione. Ma due conseguenze anche che fotografano – a grandi linee – il generale retropensiero che ha reso “insofferente” verso la sinistra anche chi, come chi scrive, ha sempre (ovviamente nel piccolo e piccolissimo in cui gli è toccato di operare) non solo “condannato”, ma “combattuto” l’oppressione e non si è mai sottratto alla “denuncia” (avendone occasione e/o strumenti) di ciò che gli sembrasse “violenta” manifestazione di potere. Senza per questo disdegnare di votare o frequentare la “destra”.

È difficile non vedere invero nelle due conseguenze in questione lo spartiacque – buoni (sinistra)/cattivi (destra) – sul quale si è fondato il senso di “superiorità” che fa ritenere (nell’Occidente contemporaneo) a chiunque si collochi a sinistra (nello spettro delle posizioni possibili in un ambiente comunque “liberaldemocratico”) di essere sempre nel giusto. Sino a renderlo “libero” da ogni vincolo di prudenza o coerenza. La sua eventuale “cecità” (non avere subito riconosciuto la carica oppressiva del “socialismo” reale o gli effetti potenzialmente devastanti delle “primavere arabe” o della “globalizzazione”) diviene “errore” (in una accezione molto dolce, quello degli altri essendo sempre invece complice “orrore”). E il suo successivo riconoscerlo (normalmente solo di fronte all’evidenza gridata dei fatti) non fa da ostacolo in alcuna misura a nuove “predizioni” (qualche volta anche autentiche “prediche”). Il “futuro” sa leggerlo bene solo chi è di sinistra. E il presente non può giudicarlo alcun altro. Le persone di sinistra sanno anche come “dovrebbero” essere i loro avversari. La destra (quale storicamente osservabile: abbia aspetto “executive” o “trasandato”) non va mai bene. Ne andrebbe bene sempre un’altra. Quella che – se vi fosse – giustificherebbe “dialogo”. Peccato che manchi.

Chissà se un breve ripasso della storia permetterebbe ai nostri di constatare come – sempre e dovunque – la sinistra “di rivolta” abbia aperto la strada, quando ha avuto successo, ad una sinistra “di oppressione” (domandate – vado a caso – a Tacito di Augusto, o agli storici moderni di Lenin) e, quando non lo ha avuto, ha fatto da apripista (con le sue intemperanze integraliste) ad una destra “di oppressione” (il cui ricordo gronda vergogna ancora: chiedo, sempre a caso, se qualcuno ricorda le proscrizioni di Silla o la nascita dei fascismi europei del Novecento).

Sarebbe forse tempo che anche la (attuale) sinistra cominciasse a riconoscere una verità banale, che la storia è cioè un fatto complesso. Che non si può essere sempre “aperti” o “chiusi” e che il solo modo di combattere le “oppressioni” è impedire che ne nascano i presupposti. A partire dal credere che le soluzioni ai problemi possano venire da una considerazione anticipata (ideologica e astratta) di una realtà (quella futura, da “governare”) che è invece, più semplicemente, inconoscibile. Se il “dubbio” divenisse di sinistra, vi sarebbero di certo meno oppressori e meno proclami. E il mondo avanzerebbe – lentamente e senza bandiere – verso il solo miglioramento pensabile: quello “possibile”. La sinistra cesserebbe di vivere se stessa come la cittadella assediata dei “virtuosi” e magari comincerebbe a governare vincendo (e non aggirando) elezioni. Ma sarebbe ancora “sinistra”?

Come l’intervistato dal quale ho preso spunto osserva, mai si era conosciuta (in Occidente almeno) una condizione di così generalizzato rapido avanzamento medio come quello conseguito negli ultimi 150 anni (“l’80 per cento della collettività sta molto meglio di nonni e bisnonni”). Eppure egli non riesce a sottrarsi al giudizio che il fatto constatato sia conseguenza di una pratica economica (il capitalismo) subdola (proteiforme) e della quale si deve perciò continuare a diffidare. Benché  l’opposta ricetta (quella marxista) abbia provocato (come egli stesso riconosce) risultati molto meno emancipatori. Anche il “possibile” conseguito resta, per questa sinistra, meno apprezzabile del “desiderato” irrealizzato.

Il problema contemporaneo della sinistra è tutto qui.

La sinistra (attuale) “giudica”. Dispone sempre di un parametro astratto. Sa e pianifica (anche solo con l’immaginazione: “Andrà tutto bene”). Gli altri accettano la complessità della storia, ne registrano gli esiti e ne gestiscono (a vista) gli svolgimenti. Nessuna delle due visioni, naturalmente, garantisce il successo dell’azione collettiva. Ci possono essere eccellenti risultati e immani disastri nell’uno e nell’altro caso. Dipenderà sempre dalle “persone” (oltreché da contesti e risorse). Non dalla prospettiva adottata, della quale mancherà sempre una “decisiva” verifica. Con conseguente eterna attualità di ciascuna delle due. Cambiate persone e contesti (diranno i rispettivi difensori) e… vedrete. Con una differenza tuttavia. Mentre a fronte di difficoltà/insuccessi la “destra” (per designazione, la “non sinistra” insomma) non faticherà a cambiare, con le persone, anche il “programma”, la “sinistra” (per convinzione) ribadirà ostinatamente il proprio.

Vi spiego il problema della sinistra. Analisi del prof. Corbino

Di Alessandro Corbino

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