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Chi ha avvelenato Alexey Navanly? E perché?

Il rischio è di drammatizzare l’avvenimento e cadere in teoremi suggestivi ma frettolosi (avvelenamento + Russia = Putin); o minimizzarlo negando evidenze di base (Navalny è in coma per cause “naturali”).

Dobbiamo basarci sui pochi elementi che abbiamo, per ora più dal versante russo che da quello tedesco, e cercare di ipotizzare se quanto avvenuto abbia avuto un mandante e movente politico-istituzionale o di altro tipo.

Navalny è personaggio divisivo in Russia, molto più fastidioso per gli scandali dell’establishment che ha contribuito a scoprire che per il suo reale consenso politico, spesso esagerato dai media occidentali.

La lista dei suoi nemici è lunga sia nell’enorme para-Stato russo che nel settore privato (i due contesti sono osmotici).

Fermo restando che è ancora difficile dire “chi-è-stato” ad ordire l’avvelenamento, è più facile per l’analista ipotizzare “chi-non- è-stato”.

Difficile credere che l’azione sia partita da un ordine del Cremlino inteso, si badi, come Vladimir Putin e il ristretto gruppo dei suoi più influenti consiglieri.

Per quanto a noi, comunque attratti dal carisma del Presidente, faccia piacere (e comodo) pensare a una Russia verticista dove ogni decisione è ricondotta a Putin in persona, ci sono tre elementi che mettono in secondo piano l’ipotesi di un “avvelenamento di Stato”.

Il primo è di ordine politico. È un dato di fatto innegabile che ogni qualvolta avvenimenti del genere accadono, i primi a rimetterci sono proprio il Cremlino e il presidente in persona.

Il danno di immagine è evidente sia all’estero (la narrativa di un Putin avvelenatore è oramai tanto consolidata da essere penetrata anche nei nostri rotocalchi di gossip), che all’ interno, dove, per inciso, il malcontento per l’emergenza del Covid nel 2020 ha scalfito la popolarità del presidente.

Difficile che un Cremlino cauto a non bruciarsi l’immagine in Bielorussia (nonostante scomposti richieste di Lukashenko ad usare la mano dura contro la piazza in protesta) decida contestualmente di esporsi eliminando Navalny. Né convince l’ipotesi di Mosca mossa dalla voglia di sbarazzarsi del “capo dell’opposizione”.

In primo luogo perché l’opposizione in Russia è molto più variegata di quanto noi continuiamo a rappresentare e ha molte anime che si muovono autonomamente da Navalny e che anzi si rafforzerebbero da una sua uscita di scena, come accadde a suo tempo dopo l’arresto di Mikhail Khodorkovsky.

In secondo luogo perché il blogger è stato capace di mobilitare più dissenso verso l’establishment che consenso per il suo movimento.

In definitiva, pur essendo una spina nel fianco, non rappresenta un rischio immediato e il rimuoverlo avrebbe dei costi molto più alti che tollerarlo come avvenuto in tutti questi anni.

Il secondo elemento che induce a una certa cautela rispetto al movente istituzionale è di intelligence-logistica. Colpisce l’analista la sopravvivenza di Navalny al tentativo di avvelenamento, ma forse ancora più alle 44 ore di ricovero nell’Ospedale di Omsk, dove i protocolli medici usati sono tutt’altro quelli di chi ha l’occasione d’oro per dare il colpo di grazia alla vittima miracolosamente scampata una prima volta all’attacco.

Innanzitutto Navalny arriva in ospedale con tempestività inusuale per la Russia, in tutto mezz’ora dopo la richiesta di soccorso inviata dall’aereo in fase di atterraggio. Non si gioca in sostanza sul ritardo dei soccorsi, uno degli aspetti logistici più facili da usare in questi case per “aggravare” la posizione clinica del paziente.

Inoltre, durante il suo ricovero, a Navalny vengono eseguiti numerosi test diagnostici che verranno passati integralmente (e accettati) al team medico tedesco, permettendo loro di guadagnare tempo ed avere un’anamnesi completa del paziente, tracciandone l’intera dinamica clinica.

Si tratta di 8 esami del sangue biochimici e 11 test di emogasanalisi, 6 esami del sangue generali, 5 elettrocardiogrammi, 25 test del glucosio; 4 test generali delle urine, nonché di una risonanza magnetica.

Ma, soprattutto, appena Navalny arriva in ospedale viene subito trattato con iniezioni di atropina che ne stabilizzano la posizione a tal punto che il team medico tedesco continuerà a usare lo stesso farmaco, riconoscendone l’efficacia.

È un trattamento che, anche per la tempistica, salva la vita al paziente e viene deciso dal primario del pronto soccorso di Omsk, Alexander Murakhovsky – dopo, a quanto pare, un consulto telematico con massimi specialisti della sanità pubblica a Mosca.

Di nuovo, un’efficienza e disponibilità piuttosto strana da spiegare per chi avesse voluto fare aggravare il paziente.

L’ultimo elemento che va contro la narrativa del mandante-Putin è di matrice storica. È credibile che il Paese che più viene ritratto in Occidente come patria delle spie – spietate sì, ma anche efficienti – e che pochi giorni fa ci ha comunicato che già nel 1961 aveva la “madre di tutte le bombe”, fallisca cosi miseramente davanti all’obiettivo di eliminare un oppositore, sbagliando la dose del veleno in una bevanda?

Senza contare che, dovendo scegliere, avrebbero probabilmente usato altri veleni più efficaci e invisibili (tra le sostanze a disposizione dell’intelligence per questo tipo di operazioni pare vi siano liquidi indolori e insapori che, se ingeriti, provocano un infarto letale alla vittima, senza lasciare tracce in autopsie svolte dopo le 12 ore dal decesso).

E senza dimenticare che gli omicidi di Stato (non solo in Russia, ahimè) prediligono da sempre l’incidente fatale ad altre tecniche come l’avvelenamento, che lasciano troppe tracce e indizi.

Riprendendo un post apparso su Dagospia qualche giorno fa, se uno Stato vuole eliminare un oppositore “non avvelena il thè che beve sull’aereo. Lo fa cadere direttamente (Enrico Mattei docet)”.

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