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Dopo Beirut, sul Medio Oriente si addensano nuove nubi di incertezza, per un’area che si conferma tra quelle a più alta conflittualità di tutto il globo. Il futuro della regione è stato al centro della conferenza organizzata dalla Nato Defense College Foundation lo scorso 27 luglio a Roma. Durante l’evento, che ha visto l’intervento di 15 oratori e di oltre 250 partecipanti (in presenza e via web), si sono analizzate le caratteristiche dell’attuale scenario regionale per provare a immaginare quale sarà il futuro di un’area complessa ma dalle innumerevoli potenzialità. I due panel hanno analizzato le ragioni e lo sviluppo delle tensioni che da tempo affliggono l’area e l’importanza del ruolo della società civile come fattore di stabilizzazione e di promozione del progresso e della pace nella regione.

TRA SFIDE E OPPORTUNITÀ

“Abbiamo organizzato questa conferenza – ha spiegato l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, presidente della NDC Foundation all’apertura dei lavori – con l’intenzione di guardare oltre le attuali crisi dell’area, cercare soluzioni possibili e discutere di cooperazione a livello regionale e internazionale”. L’obiettivo, ha aggiunto, “è quello di vedere un arco di crisi trasformarsi in un arco di opportunità, e questa parte del mondo ha un grande potenziale”. L’importanza del dialogo come strumento fondamentale per promuovere il progresso, la cooperazione e la risoluzione delle controversie è stato ribadito anche dall’intervento virtuale di Karim El Aynauoi, presidente del Policy center for the new South di Rabat.

IL RUOLO DELLA NATO

Considerata per diverso tempo come un’area non rientrante nelle competenze dell’Alleanza Atlantica, la regione del Medio Oriente è stata il teatro della più vasta operazione militare che l’organizzazione atlantica abbia portato avanti negli ultimi settant’anni, ovvero la missione Isaf (International security assistance force) in Afghanistan, poi divenuta Resolute Support. Nell’aprile 2011, all’apice delle operazioni, la missione impegnava circa 130mila unità. Giovanni Romani, responsabile della sezione Medio Oriente e Nord Africa all’interno della divisione politica e di sicurezza del quartier generale Nato, ha sottolineato l’importanza della regione per la sicurezza dell’Alleanza e la buona salute dei partenariati che essa ha stabilito con i Paesi che la abitano (Mediterranean dialogue e Istanbul cooperation initiative). “Oltre ai rapporti tra i singoli Partner – ha commentato – essi hanno infatti assicurato gli strumenti e gli spazi utili a individuare, discutere e affrontare le sfide comuni, spesso fornendo le condizioni grazie alle quali i Partner hanno potuto superare le loro posizioni divergenti”.

Più critico riguardo l’azione atlantica nell’area Mena il professore Gilles Kepel, direttore scientifico della Middle east mediterranean freethinking platform dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. “È il momento di ripensare il ruolo della Nato in Medio oriente e Nord Africa”, ha detto. Nell’intervista rilasciata a Formiche.net, Kepel ha spiegato come l’allontanamento statunitense dalla regione, iniziato da Obama e portato avanti da Trump, e le azioni intraprese recentemente da Ankara abbiano indebolito la Nato. “Se Trump venisse riconfermato – ha sentenziato – l’Alleanza potrebbe ritrovarsi in uno stato di debolezza terribile in Medio oriente”.

LA COMPETIZIONE REGIONALE

“Negli ultimi due decenni, il Medio Oriente e il Nord Africa hanno assistito alla proliferazione di attori non statali con un’influenza sempre maggiore e il cui peso politico minaccia la stabilità dell’intera area e non solo”, ha detto Brahim Oumasour, ricercatore del Center for studies and research on the Arab and Mediterranean world di Ginevra e dell’Institute for international and strategic affairs di Parigi. “Dietro la loro ascesa – ha precisato – ci sono numerosi fattori: dall’instabilità politica dell’area (innescata principalmente dalle rivolte del 2011 e dalla seconda ondata di proteste del 2019) alla fragilità degli Stati, dalle crisi economiche e ambientali alle tensioni inter e intra statali, continuamente aggravate da attori stranieri”. Secondo quanto affermato da Maged Abdelaziz, osservatore permanente della Lega araba alle Nazioni Unite, il tumulto generato dai moti dello scorso decennio “ha portato alcuni Paesi arabi a competere per un ruolo egemonico che non corrisponde alle loro capacità e va contro il volere degli altri attori regionali”. Questo, ha rimarcato, “ha creato una frattura tra gruppi di stati e singoli paesi dell’area, che ha a sua volta compromesso la capacità della Lega degli Stati arabi di intraprendere delle iniziative di carattere collettivo, specialmente per quanto riguarda la sicurezza e la stabilità regionali”.

L’ESEMPIO IRACHENO

Entrambi i panel hanno rimarcato l’importanza dell’apporto della società civile e delle giovani generazioni per la stabilizzazione della regione. Sofia Barbarani, giornalista freelance e già inviata per Bbc, Sky news e Cnn, ha citato l’esempio dell’attivismo della società civile irachena: “L’Iraq è tra i migliori esempi di un Paese arabo che può contare su una società civile informale, talvolta disorganizzata, e tuttavia ben funzionante”. Soprattutto a partire da ottobre 2019, ha concluso, “l’Iraq ha usato le organizzazioni della sua società civile per promuovere un cambiamento politico reale, laddove la situazione politica nazionale è rimasta stagnante per fin troppo tempo”.

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