Skip to main content

Nei giorni scorsi il dipartimento di Stato statunitense ha reso nota una serie di email di Hillary Clinton, sfidante del presidente Donald Trump alle presidenziali di quattro anni fa, dal contenuto ambiguo e travisabile. Come spiegato su Formiche.net, i leak tenevano a dimostrare il coinvolgimento di Clinton e dell’amministrazione Obama – di cui faceva parte come segretario di Stato – nelle rivoluzioni mediorientali attraverso una sorta di alleanza con la Fratellanza musulmana.

E ad alimentare tramite un’infowar quei sospetti ci ha pensato l’Arabia Saudita, pronta ad aiutare Trump – che si è spesso dimostrato aperto nei confronti delle richieste di Riad – e a far valere questioni interne oltre che la propria posizione nei confronti della Turchia. David Ignatius ha spiegato sul Washington Post che forse i sostenitori sauditi di Mohammed bin Salman, oggi erede al trono dopo aver spazzato via negli anni tutti i rivali, “immaginano che il loro clamore sulle email di Clinton aiuterà Trump prima delle elezioni del 3 novembre. Qualunque sia il motivo, la campagna ci ricorda che le affermazioni di Trump, non importa quanto grezze, vengono ascoltate e amplificate all’estero in modi che potrebbero danneggiare gli interessi degli Stati Uniti”.

Formiche.net ha analizzato la situazione in Medio Oriente con William Wechsler, direttore del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council di Washington D.C. e già vice sottosegretario al Pentagono con delega alle operazioni speciali e alla lotta al terrorismo nell’amministrazione guidata da Barack Obama.

Che cosa sta succedendo?

Per molti anni i leader sauditi hanno costruito il loro rapporto con gli Stati Uniti sugli interessi reciproci piuttosto che sui valori comuni. A differenza di quanto fatto da altri Paesi nella regione, come per esempio Israele che condivide valori profondi con l’Occidente.

Cos’è cambiato?

Negli anni passati l’Arabia Saudita ha lavorato con gli Stati Uniti sulla base di un sostegno bipartisan al Congresso degli Stati Uniti e con ogni amministrazione, sia repubblicana sia democratica, tenendosi alla larga delle questioni interne. Ora l’Arabia Saudita sta vivendo una complicata transizione di potere ma anche di governance. E sotto la leadership del principe ereditario Mohammed Bin Salman è diventata più aggressiva verso chi considera nemici o non in linea con le attuali politiche.

Come l’amministrazione Obama?

A Riad lo negano, ma sì. E adesso l’Arabia Saudita non è più soltanto una questione di politica estera per gli Stati Uniti, è un affare di politica interna: il caso di Jamal Khashoggi non ha fatto che alimentare questa cosa. Ciò che non possono negare è che ci fossero tensioni con l’amministrazione Obama e che fossero contrari a un’elezione a presidente di Hillary Clinton.

Nel 2016 tifavano per Trump dunque?

Il primo viaggio all’estero di un presidente è in Canada o in Messico. Avrebbe potuto scegliere il Giappone, l’Europa, qualche alleato Nato. Ma ha deciso di recarsi in Arabia Saudita (e subito dopo in Israele, ndr).

Lei ha definito l’Arabia Saudita “una questione politica per gli Stati Uniti”. Ciò che cosa significa per Riad?

Da una prospettiva saudita le relazioni con gli Stati Uniti sono state ai minimi quando ciò è accaduto, pensiamo all’embargo sul petrolio negli anni Settanta o al post l’11 settembre.

Perché?

Come detto, Riad non può permetterselo visto che, a differenza di Israele, condivide solo interessi e non valori con gli Stati Uniti. All’americano medio, quando pensa all’Arabia Saudita, vengono in mente subito questioni spinose come i diritti delle donne o la libertà religiosa. E a dimostrazione di come l’Arabia Saudita sia diventata una questione di politica interna Joe Biden ha parlato in campagna elettorale di “rivalutazione” dei rapporti con Riad.

Quindi gli accordi di Abramo sono a rischio con un’amministrazione Biden?

Non penso. Biden è stato molto chiaro e si è complimentato con Trump. Piuttosto, la situazione sarebbe difficile per la leadership saudita, chiamata nel caso a decidere se cercare di ripristinare un rapporto bipartisan con gli Stati Uniti com’era in passato o se rilanciare un approccio fondamentalmente di parte e inevitabilmente conflittuale con gli Stati Uniti in caso di un’amministrazione Biden.

Lei ha sostenuto che a beneficiare politicamente degli accordi di Abramo non è soltanto Trump. Anche Biden ne può approfittare. Come mai?

Con la questione delle annessioni israeliane tolta dal tavolo potrebbe iniziare il mandato senza la minaccia delle annessioni israeliane. Se fossero rimaste sul tavolo, invece, sarebbero state la prima ragione di scontro tra Stati Uniti e Israele, in particolare con un’amministrazione Biden. Così, invece, l’ex vice presidente potrebbe rilanciare l’impegno americano dopo il ritiro di Trump.

La campagna di Trump aveva chiesto che nell’ultimo dibattito tra candidati venisse dedicato più spazio alle questioni di politica estera. Il tutto mentre l’amministrazione lavora per allargare gli Accordi di Abramo, con il Sudan che sarebbe prossimo a riconoscere Israele. La politica estera è l’ultima carta per il presidente?

La campagna di Trump sa bene di non avere molti punti di forza su quanto fatto in questi anni. E sta puntando su questo aspetto, anche a costo di fare importanti concessioni di cui certi Paesi sono pronti ad approfittarne. In particolare, gli Accordi di Abramo sono uno dei pochi successi di questa amministrazione che possano convincere non soltanto la base elettorale trumpiana.

Ultimo tema, l’Iran. Cosa aspettarci con un’amministrazione Biden?

Biden ha preso una posizione intelligente: se l’Iran rispetta gli accordi, lui è disposto poi a rientrare nel Jcpoa. Ma non è così facile: gli iraniani non sembrano disposti a tornare a quell’intesa. Inoltre, non sarebbe così facile per Biden rimuovere tutte le sanzioni imposte da Trump, che colpiscono non soltanto questioni nucleari ma anche le attività dei proxy iraniani in Siria, per esempio. Toglierle potrebbe apparire come un riconoscimento di Washington che Teheran non sta più conducendo certe operazioni. Di contro, sarebbe più facile per Trump. Ciò che può accadere con un’amministrazione Biden è la ripresa del dialogo diplomatico.

E se vincesse Trump?

Penso che per prima cosa non commetterebbe un “errore” già commesso e si affiderebbe soltanto a yes-man come consiglieri. Nei primi tre anni alla Casa Bianca abbiamo assistito a molti cambi nelle figure di spicco al suo fianco, spesso con figure di provenienze e approcci opposti. Negli ultimi tempi sembra aver capito quali siano davvero i poteri del presidente e in una seconda amministrazione penso sarebbe molto chiaro sui suoi obiettivi in politica estera, che sono due: ritiro delle truppe (Afghanistan, Iraq, Africa) e grandi annunci di accordi storici. Pensiamo a quanto accaduto con la Corea del Nord: John Bolton ha evitato che venisse firmata un’intesa dannosa per gli Stati Uniti. Qualcosa di simile potrebbe accadere con l’Iran con l’avvio di negoziati per un nuovo accordo. Ma anche in quel caso bisognerà valutare la volontà di Teheran.

arabia saudita

Come e perché l’Arabia Saudita e gli equilibri nel Golfo contano nella sfida Trump-Biden. Parla Wechsler

Le email che proverebbero il legame tra Clinton e Fratellanza musulmana sono state oggetto di una grande campagna da parte dell’Arabia Saudita, che con MbS ha detto addio alla politica bipartisan con gli Usa. Cosa cambierà dopo le elezioni? Parla William Wechsler, direttore del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council di Washington Dc ed ex vice sottosegretario al Pentagono

L’Ue e la difesa della sovranità economica. Due rapporti (Ecfr e Cnas/Gmf) a confronto

L’Ue rischia di finire stritolata tra Stati Uniti e Cina. Due report a confronto: l’europeo Ecfr suggerisce una toolbox per difenderci dalla coercizione economica, gli statunitensi Cnas e Gmf indicano la via transatlantica (specie se Biden vincesse…)

“Not found”, questo è il piano Covid di Trump. L’ultimo affondo di Biden

Il giorno dopo l’ultimo dibattito tv negli Usa è record di contagi. E il coronavirus torna al centro della contesa tra Trump e Biden. Il punto di Giampiero Gramaglia

La buona politica ha bisogno di fiducia. Scrive Marco Follini

Ci troviamo in una fase della vita del Paese che richiederebbe soprattutto di investire in due risorse: la fiducia e la pazienza. Guarda caso, i due bastioni che la demagogia di tutti questi anni, propalata da destra, da sinistra e perfino dal centro, ha grandiosamente abbattuto con il suo furore polemico. Il commento di Marco Follini

Perché la piazza anti-De Luca è un campanello d'allarme nazionale. Il commento di Giuliani

Il governo spieghi le disposizioni, con poche e semplici parole. Conseguenze economiche comprese. Non prometta il centomillesimo sussidio, aiuti chi verrà devastato per colpa di chi non ha fatto nulla per mesi. E che oggi lancia proclami dal balcone mediatico

New Generation Eu, attenzione agli atavici vizi e ai limiti per le infrastrutture. Il commento di Tivelli

Dobbiamo scrollarci di dosso l’immagine di un Paese che si smuove solo quando è il caso di fare fronte a delle gravi emergenze e dimostrare che siamo in grado di muoverci e progettare per tempo lo sviluppo. Il commento di Luigi Tivelli

lockdown

Lockdown, io sto con Fontana. E sull'Ue... Parla Grimoldi (Lega)

Paolo Grimoldi, segretario della Lega in Lombardia, difende il governatore Attilio Fontana, “fra due settimane le terapie intensive implodono”. De Luca? La mala gestio della Sanità campana non c’entra col virus. Governo? Non sa parlare con l’Ue, forse un rimpasto aiuta. E sul Ppe…

Perché Twitter e Facebook spaventano i politici negli Usa (e non solo). Scrive il prof. Monti

Le Big Tech sono parte attiva delle competizioni elettorali e non sono soggette a regole e controlli, tanto che possono cambiare anche diametralmente le proprie decisioni senza subire alcuna conseguenza. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Diritto dell’Ordine e della sicurezza pubblica, Università di Chieti-Pescara

pandemia

Il Covid è il sintomo della rottura tra uomo e natura. Il libro di Liotta e Clementi

C’è un nesso profondo tra il deterioramento della vita materiale ed il dilagare delle malattie mortali che spesso non appaiono così letali. Il pipistrello è l’emblema, il simbolo orripilante dell’ultima malattia globale che ha contagiato il mondo. Gennaro Malgieri legge La rivolta della natura, edito da La nave di Teseo, firmato da Eliana Liotta e Massimo Clementi

roma

Calenda, Bertolaso e il futuro di Roma. L'analisi di Antonucci

Due outsider politici, due personaggi in cerca di autore, in bilico tra le rispettive competenze professionali e l’assenza di un autentico radicamento partitico. Quest’ultimo elemento, soprattutto si rivela davvero necessario per mobilitare il consenso elettorale in una megalopoli così disincantata e cinica. L’analisi di Maria Cristina Antonucci

×

Iscriviti alla newsletter