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Gli anni che hanno segnato l’ascesa dello Stato Islamico di Iraq e Siria (Isis) sono stati caratterizzati, tra le altre cose, da una crescente attenzione politica e mediatica al ruolo dei cosiddetti foreign fighters. Alcuni hanno raggiunto una discreta notorietà per le azioni compiute all’interno di Isis, come Mohammed Emwazi, soprannominato Jihadi John, una figura centrale in vari video di esecuzioni pubblicati dall’organizzazione terroristica, ed identificato, dietro al passamontagna d’ordinanza, a partire dal suo forte accento British; o il foreign fighter di origini svizzero-tedesche Thomas-Marcel Christen, la mente dietro la pianificazione dell’attentato di Parigi del novembre 2015 e responsabile dell’addestramento all’uso delle armi del gruppo di terroristi che lo ha portato a compimento.

La fondazione del Califfato voluta da Abu Bakr Al Baghdadi nel 2014 ha fatto fare un salto di qualità alle attività di reclutamento dello Stato Islamico, attirando decine di migliaia di foreign fighters da tutto il mondo: le stime più attendibili contano un flusso di 40.000 foreign fighters accolti in Iraq e Siria dallo Stato Islamico tra il 2013 ed il 2018, 5.000 dei quali provenienti da paesi dell’Unione Europea. Per le forze di sicurezza dei paesi coinvolti in questo fenomeno, il monitoraggio e l’intervento di contrasto sono diventate attività cardine nella lotta contro Isis, che si è tutt’altro che conclusa dopo la caduta del Califfato nel Marzo 2019.

Come ho avuto modo di esaminare in un rapporto recentemente pubblicato per l’International Institute for Strategic Studies (Iiss), la questione dei foreign fighters è più centrale che mai nelle dinamiche di sicurezza nazionale ed internazionale.

Mentre l’attenzione dei media si è riversata sulla questione dei cosiddetti returnees, ovvero quei foreign fighters che sono rientrati o tentano, clandestinamente, di rientrare nei propri paesi di origine, il problema è molto più complesso e multisfaccettato, soprattutto se si prendono in considerazione le altre sotto-categorie di foreign fighters esistenti che, paradossalmente, potrebbero rappresentare una minaccia terroristica più significativa.

Nei mesi che hanno preceduto il crollo del Califfato un numero imprecisato di foreign fighters si è spostato verso altri territori controllati da Isis, oppure in paesi tradizionalmente “di transito” dove hanno potuto portare avanti attività di più basso profilo ma non meno importanti, quali il reclutamento ed il finanziamento dell’organizzazione, la maggior parte dei foreign fighters di Isis rimane in territorio siriano o iracheno.

Le stime indicano che circa 3.000 sono ancora attivi e combattono in Siria, mentre altri 2.000 rimangono detenuti (assieme alle loro famiglie e ad altri 8.000 membri di Isis iracheni e siriani) in una serie prigioni annesse a campi profughi messi in piedi nei territori della Siria del Nord, sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) – l’alleanza politico-militare a maggioranza curda che ha guidato la guerra ad Isis in Siria ed Iraq.

Le già enormi difficoltà umanitarie nella gestione di questi campi sono state ulteriormente acutizzate dalla crisi innescata dal Covid-19. L’appello che Sdf, Nazioni Unite, ed il comando (americano) della task force militare che coordina la campagna contro Isis (Operation Inherent Resolve) lanciano ormai da tempo ai vari governi è quello di prendersi la responsabilità del rimpatrio dei propri foreign fighters, cosa che finora non è avvenuta se non in modo occasionale.

Una sommossa su larga scala troverebbe scarsa resistenza da parte delle Sdf, ora impegnate soprattutto nel contrastare l’avanzata della Turchia nelle aree della Siria lungo il confine turco-siriano, mentre le attività di Inherent Resolve sono significativamente limitate dalla pandemia in corso. Il potenziale collasso nella gestione delle prigioni significherebbe un possibile ritorno in attivita’ di almeno una decina di migliaia di affiliati ad Isis.

I vari governi (europei e non) che stanno gestendo la questione foreign fighters hanno a che fare con una problematica complessa, alla luce di tre fattori fondamentali. Per prima cosa, la difficoltà nel condurre indagini sulle attività che presunti terroristi avrebbero svolto nel contesto di un conflitto all’interno di un paese terzo è immensa: ovviamente non è sufficiente accusare un individuo di avere combattuto per Isis, bisogna provarlo.

Lo dimostra il fatto che nel Regno Unito, dei 400 foreign fighters che sono tornati in patria e sono stati identificati dalle autorità, solo 40 sono stati poi effettivamente processati per atti di terrorismo: un risultato politicamente difficile da spiegare, ed una situazione difficile da gestire da una prospettiva di sicurezza.

In secondo luogo, storicamente, solo una minima parte dei foreign fighters che sono tornati in patria si sono poi effettivamente riorganizzati per compiere attentati terroristici; l’altra faccia della medaglia è pero data dal fatto che i returnees, che siano essi veterani del combattimento, oppure, nei casi meno gravi, individui che hanno comunque vissuto sulla propria pelle l’esperienza del Califfato, rappresentano un mezzo di reclutamento altamente efficiente.

Terzo, la concentrazione di individui radicalizzati o a rischio di radicalizzazione in ambienti carcerari incrementa esponenzialmente il rischio di dare vita a nuove ondate di volontari jihadisti.

Già nel 2016 un rapporto pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (Icsr) ha analizzato come la convivenza di criminali comuni e terroristi di Isis nelle prigioni europee ha prodotto una sinergia tra le attività delle due categorie, ed il reclutamento ne ha beneficiato significativamente, soprattutto tramite l’attività di influenza e indottrinamento portata avanti dai veterani della jihad.

Le varie misure messe in atto dai governi vanno dalla revoca della cittadinanza, al rimpatrio delle sole famiglie o degli orfani dei foreign fighters, passando dal tentativo francese di affidare un mandato esplicito al governo Iracheno affinché processi e, potenzialmente, giustizi i foreign fighters francesi al momento imprigionati in Iraq, e arrivano, come sottolinea un documento dell’Europol, fino alla strategia russa di monitorare ma non ostacolare il flusso di foreign fighters in uscita, per poi eliminarli in Siria o prevenirne il rientro.

Più generalmente, l’approccio della vasta maggioranza dei governi è stato attendista, vista la complessità del problema. Ma oggi, alla problematica gestione dei foreign fighters rientrati in patria ed alla potenziale bomba ad orologeria di quelli al momento detenuti in Sira e Iraq, va ad aggiungersi la lenta ma costante rinascita di Isis in Iraq e Siria, denunciata da un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nelle scorse settimane, rendendo la questione foreign fighters più attuale che mai.

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