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Austin Tice è un giornalista americano, veterano dei Marines: lavorava come freelance per McClathyWashington Post e CBS quando nel 2012 è stato rapito a Darayya, in Siria. Per il governo americano è trattenuto dagli uomini del regime assadista o dai loro alleati (che significa Russia, oppure Iran, sotto la declinazione dei Pasdaran o delle milizie sciite che i Pasdaran stessi hanno mobilitato in Siria per salvare Bashar el Assad). Majd Kamalmaz è uno psicoterapeuta americano: originario di Arlington (la città della Virginia nota per il cimitero nazionale militare), anche lui è stato rapito in Siria, nel 2017.

Questi due nomi sono i più noti di una serie ristretta (meno di dieci di sicuro, forse sei in totale) di americani che sono tenuti in ostaggio dalle strutture del regime siriano e che in questo momento sono al centro di uno sforzo diplomatico di Washington per riportarli a casa. Quasi inutile aggiunge un commento: la tempistica è chiara, liberarli adesso rientra nelle attività che potrebbero pubblicizzare l’operato della presidenza Trump, che il 3 novembre cercherà il secondo mandato alle elezioni Usa2020.

I colloqui per sbloccare il rilascio durano da molto tempo: per esempio si sa che a novembre del 2018 il consigliere per la Sicurezza nazionale, Robert O’Brienchiese al Cremlino di fare tutto il possibile e di usare “qualsiasi tipo di influenza abbiate sulla Siria” per liberare Tice. Mosca sulla Siria ha un’influenza teoricamente totale, anche perché senza la Russia il regime sarebbe stato deposto sotto i colpi delle varie opposizioni: e però, il governo russo non è riuscito a liberare il giornalista (o non ha voluto farlo).

Come detto, la tempistica attuale è diversa e ben più stringente, legata anche alle presidenziali. E infatti il Wall Street Journal è stato informato che recentemente Kashyap Patel è stato a Damasco per gestire la questione direttamente con gli uomini del regime. Patel è un esperto dei back-channel: per esempio si è parlato di lui quando un paio di anni fa, da aide della Commissioni Intelligence della Camera (ai tempi sotto la presidenza del repubblicano Devin Nunes), pare avesse curato alcuni contatti con Kiev nel tentativo di forzare un’indagine contro il figlio dell’attuale contender democratico, Joe Biden. È la storia alla base della richiesta di impeachment contro Trump: Patel ha sempre negato coinvolgimenti.

L’indiano-americano esperto di intelligence e trattative nell’ombra, che ancora fa parte dei consulenti della Casa Bianca, è andato a Damasco per cercare una mediazione con Assad, che a marzo avrebbe anche ricevuto una lettera in cui Donald Trump in persona chiedeva l’apertura di una trattativa. Nel frattempo, altri colloqui sono stati condotti dal direttore dell’intelligence libanese Abbas Ibrahim. Il gancio libanese non è solo questione di prossimità geografica: Assad è infatti sostenuto militarmente dagli uomini di Hezbollah, partito-armato di Beirut che gli Usa hanno messo sotto massima pressione come l’Iran, di cui è emanazione.

Le voci che sono arrivate ai media americani parlano di una partita di scambio. Il regime – che ufficialmente ha sempre smentito di aver catturato gli statunitensi – accetterebbe il rilascio se gli Usa accetteranno l’uscita militare dal Paese. In Siria gli Stati Uniti hanno piazzato alcuni team di forze speciali che hanno il delicatissimo compito di tenere sotto massimo controllo (dal campo) le spurie dello Stato islamico, e contemporaneamente bilanciano l’impegno russo-iraniano. In particolare, si parla che gli assadisti abbiano chiesto l’uscita dalla base di al Tanf.

Si tratta della base più importante dal punto di vista tattico, situata dove la valle dell’Eufrate confina con l’Iraq (questa è la zona dove si sono nascosti molti leader baghdadisti). Serve agli Usa anche per tenere gli occhi sulla porzione di Siria che contiene le riserve energetiche, che seppur poche sono un asset per il Paese (e dunque serve per marcare la presenza su Damasco). Inoltre è un avamposto molto importante perché snodo di passaggi d’armi che gli iraniani fanno arrivare alle milizie sciite (passaggi che preoccupano su tutti Israele, ma che sono un elemento di destabilizzazione regionale in via generale più volte denunciato dagli Usa).

Considerando che Trump in passato ha più di una volta annunciato il ritiro dalla Siria, allora si potrebbe pensare che la proposta che ha portato a casa Patel dalle trattative potrebbe non essere considerata pessima dal presidente – che otterrebbe la liberazione degli ostaggi (su cui era stato già pressato dai famigliari di Kamalmaz lo scorso anno) e il ritiro dei soldati, ossia potrebbe rivendicare un successo doppio davanti gli elettori (negli Usa in tanti sono stanchi dei numerosi impegni militari, e da molti anni ormai i presidenti che vincono le elezioni sono quelli che promettono di ridurre i coinvolgimenti).

È però improbabile che le strutture (Pentagono, intelligence, dipartimento di Stato e anche Congresso) accettino questo genere di scambio. D’altronde gli apparati hanno già fatto in modo che la presenza militare americana in Siria non fosse eliminata del tutto.

Così gli Usa trattano con Assad la liberazione degli ostaggi da Damasco

Secondo il Wall Street Journal e altri media americani sarebbero in corso contatti tra il governo americano e il regime siriano per il rilascio di alcuni ostaggi statunitensi detenuti a Damasco. A condurli è un negoziatore esperto di mediazioni non ufficiali, che avrebbe riportato a Washington la richiesta assadista: liberi gli americani se le truppe Usa lasceranno la Siria

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