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L’Italia alla ricerca di equidistanza rischia di “non andare da nessuna parte”, commenta con Formiche.net una fonte interna al Governo di accordo nazionale della Libia.

La reazione è al doppio contatto, sul doppio fronte libico, di questi ultimi giorni: secondo uno schema stanco e infruttuoso, il premier Giuseppe Conte ha prima parlato al telefono con l’omologo di Tripoli, Fayez Serraj, e qualche giorno dopo con il suo aggressore, il signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar, che da oltre un anno ha lanciato una campagna per rovesciare militarmente l’esecutivo che l’Onu ha imposto nella capitale dal 2016 (operazione effettuata grazie all’impegno diretto, sul campo, dell’Italia: val la pena ricordarlo).

La strategia italiana, l’equidistanza autoimposta e continuamente forzata, s’è rivelata in tutta la sua inefficienza. Roma non ha ottenuto un cessate il fuoco, tanto meno un processo di pacificazione. Anzi, tutt’altro: Haftar sta perdendo terreno, anche perché Tripoli è passato alla controffensiva grazie al supporto diretto turco.

Va da sé che l’Italia non è in grado di mantenere autorevolezza sul campo. Negoziare la fine di una guerra escludendo a priori qualsiasi uso della armi rende menomati di un’opzione che, per quanto ultima e certamente impossibile, non può essere esclusa subito dal tavolo delle trattative. È questione di deterrenza funzionale. La perdita di presa e rispetto sul campo di battaglia si deve anche a questa miopia.

Attualmente ci troviamo davanti a un clamoroso fallimento. Il ruolo italiano nella crisi è praticamente irrilevante, nonostante Tripoli continui a provare con Roma stimoli per un migliore coinvolgimento.

E tutto è reso più grave dalla ricomposizione di un fronte dietro al governo onusiano su cui anche (e soprattutto) gli Stati Uniti hanno mostrato rinnovato interesse e maggiore decisione. Posizionamento dovuto al palesarsi chiaro della Russia sul fronte opposto – schieramento che è diventato ufficiale dopo lo spostamento, via Siria, di alcuni jet da bombardamento in Cirenaica.

Se gli interlocutori libici leggono la nostra presunta equidistanza come ambiguità – aspetto che fa perdere autorevolezza, rispetto e terreno politico – i partner internazionali come Washington rischiano di percepirla come una conferma dei rapporti opachi tenuti con Russia e perché no Cina (attore che nel quadrante mediterraneo è sempre più aggressivo e su cui la Turchia agisce in funzione di contenimento, in combinato con gli Usa).

La nostra Caporetto si chiama Tripoli. L’importanza del dossier libico sta, per un Paese come l’Italia, nel misurare e testare la propria capacità di esprimere proiezioni e interessi di politica internazionale. La Libia è l’altra sponda del mare che circonda la Penisola: se Roma non è in grado di controllarla – questione di sicurezza nazionale, ancor prima che di interesse – come può pensare di muoversi nel mondo?

In Libia il premier Conte segna la sua Caporetto. Ecco perché

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