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A Baku amano le eccezioni. Mentre il mondo ascoltava gli appelli del Segretario Generale Antonio Guterres e dei Capi di Stato e di Governo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria globale delle operazioni belliche; mentre la Comunità Internazionale si concentra su sinergie per combattere la pandemia globale,  all’alba di domenica 27 settembre, l’Azerbaijan ha lanciato un attacco, non provocato, su larga scala lungo l’intera linea di contatto con il Nagorno-Karabakh (in armeno Artsakh) e su alcune direttrici del confine di stato con l’Armenia. L’uso combinato di forze di terra e aria, inclusi droni kamikaze e missili tattici, contro la popolazione armena e le infrastrutture civili, inclusa la capitale Stepanakert, ha causato vittime civili e decine di feriti. Sono in corso intensi combattimenti fra le forze armate azere e del Nagorno Karabakh. In Armenia e in Nagorno Karabakh è iniziata la mobilitazione generale. Le forze armate azere hanno subito considerevoli danni nel tentativo di avanzata. 

Fino a qualche anno fa, la breve cronaca qui sopra avrebbe potuto sembrare uno degli scenari, non certo il più probabile, di un’analisi geopolitica. Tuttavia, c’è stato un drastico mutamento delle costanti e delle variabili sia regionali che macro regionali. Da un lato, stiamo assistendo a una protratta caduta dei prezzi degli idrocarburi, i cui proventi venivano utilizzati dalla dittatura azera per “comprare” consenso interno e internazionale (si veda, a tale proposito l’inchiesta Laundromat e le sue ramificazioni anche in Italia), combinata con gli effetti della pandemia Covid19. Non secondario è l’impatto della spesa bellica dell’Azerbaijan, che già nel 2014 secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) era aumentata del 2.500 % in 7 anni e ha continuato lo stesso trend di crescita. Questi dati sono comparabili con quelli del riarmo della Germania nazista negli anni trenta. Inoltre, tale spesa bellica, in un paese con tassi di povertà ancora problematici, genera aspettative di una vittoria militare schiacciante contro “gli armeni”, che a loro volta, secondo le denunce del Coniglio d’Europa sono da decenni oggetto di politiche pubbliche scolastiche armenofobe. 

Sul piano macro-regionale, invece, la postura più assertiva della Turchia, alleato storico dell’Azerbaian, nel proprio ampio vicinato –  dai Balcani, passando per il Mediterraneo orientale, per il Medio Oriente, il Caucaso, l’Asia centrale, fino alle provincie turcofone nord-occidentali della Cina – sta chiaramente avendo un ruolo destabilizzante. In altre parole, in Turchia abbiamo assistito, nell’ultimo decennio ad una metamorfosi strategica che partiva da zero problems with neighbours del neo-ottomano Davutoglu, il cui fallimento ha portato al zero neighbours without problems di oggi.   

A prova di ciò, già nel mese di luglio, l’Azerbaijan, con un non più celato supporto della Turchia, ha lanciato un altro attacco, anche questo senza precedenti sia per la geografia delle operazioni, che hanno colpito l’Armenia stessa, sia per l’uso combinato di mezzi militari. L’apice di quelle operazioni militari, al loro terzo giorno di svolgimento, fu l’esplicita minaccia di Baku di lanciare un attacco missilistico contro la Centrale nucleare di Medzamor in Armenia. Tale atto costituisce ovviamente una violazione del diritto umanitario internazionale. 

Gli scontri di luglio si conclusero grazie alla mediazione del Gruppo di Minsk dell’Osce e ad un ruolo fattivo della federazione Russa, coordinato con Francia e Usa. È degno di nota che proprio in quei drammatici giorni, mentre Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma e Mosca, tra molte altre capitali, chiedevano una cessazione delle operazioni militari, Ankara accusava l’Armenia e esprimeva il suo incondizionato supporto a Baku. La fine dell’escalation di luglio coincise, infine, con massicce esercitazioni congiunte turco-azere e con notizie di trasferimenti di jihadisti pro-turchi da Afrin (Siria) in Azerbaijan in funzione anti-armena. 

È utile, a questo punto, contestualizzare le origini del conflitto che esplodeva contemporaneamente con l’erosione dell’Urss. Si trattava, allora come oggi, del diritto di ribellione di tocquevilliana memoria, pietra miliare dei più rilevanti progressi sociali della storia moderna e contemporanea. Appunto, si trattava di ribellione ad un sopruso che nel 1921, su iniziativa di Iosif Stalin, all’epoca Commissario per le Nazionalità, annetteva la regione, storicamente armena (lo testimonia Erodoto nel V secolo a.C.) e a maggioranza armena, come enclave all’Azerbaijan con tutte le conseguenti discriminazioni di Baku nei confronti degli armeni nel Nagorno-Karabakh. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione (si veda la Carta delle Nazioni Unite) con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss. Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh. Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica; invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di cessate il fuoco di Bishkek , tuttora formalmente in vigore, tra l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.

Da quel momento, della composizione pacifica del conflitto, che dovrebbe basarsi su principi ispirati dalla Carta ONU e dall’Atto Finale di Helsinki, precisamente il divieto dell’uso o della minaccia di uso della forza, l’autodeterminazione dei popoli e l’integrità territoriale, si occupa, su mandato della comunità internazionale, il Gruppo di Minsk dell’OSCE, co-presieduto dalla Russia, Francia e Stati Uniti. L’Armenia, insieme al Nagorno Karabakh mantengono una posizione ufficiale che esclude ogni alternativa alla composizione pacifica del conflitto, in linea con la combinazione dei tre principi del diritto internazionale sopra citati. L’Azerbaijan, no!

Mentre le armi non stanno ancora tacendo in Nagorno Karabakh, l’imperativo morale della comunità internazionale è invece di dire parole chiare. L’”ambiguità costruttiva” delle dichiarazioni delle organizzazioni internazionali, quella che negli ultimi decenni ha evitato di additare le responsabilità del regime azero, ha contribuito ad un atmosfera di impunità, mettendo ancora una volta sullo stesso piano aggressori e difensori.

In queste ore, sento il dovere di dire io parole chiare: la composizione equa e duratura del conflitto in Nagorno –Karabakh deve basarsi su questi tre pilastri:

1) cessazione immediata dell’aggressione iniziata all’alba del 27.09 e una commissione d’inchiesta internazionale sulle sue dinamiche:

2) rilancio dei negoziati di pace nel quadro della co-presidenza del Gruppo di Minsk Osce, il ritorno del Nagorno Karabakh (assente dal ’97) su quel tavolo che deve determinare il suo stesso status finale, con contestuale dispiegamento di una missione permanente di osservatori internazionali, con strumenti fattivi di investigazioni sulle violazione del regime di tregue;

3) in mancanza di svolte costruttive di Ankara, il diniego di accesso della Turchia a qualsiasi ruolo nel formato negoziale esistente, dato che a partire dal ’93 ha unilateralmente chiuso i confini con l’Armenia, non ha rapporti diplomatici con il Paese, rifiuta di fare i conti con la proprio storia riguardo al Genocidio degli Armeni durante la Prima Guerra Mondiale, minaccia di ritorsioni ogni attore della comunità internazionale che lo riconosce e conduce una politica estera esplicitamente ostile verso l’Armenia. Ciò stante, non può apportare svolte costruttive.

Il Novecento ci ha insegnato che ogni conflitto che supera una generazione è condannato a perdurare per generazioni. Sono convinto che i figli di madri e padri armeni, azeri o turchi meritino di essere liberi dalle catene di questa guerra.

 

L’Armenia vuole pace, l’Azerbaigian vuole l’Armenia. Il conflitto in Nagorno Karabakh spiegato da Ghazaryan

Di Sargis Ghazaryan

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