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Matteo Salvini, dall’opposizione, ripone le divise che aveva indossato da ministro dell’Interno (non lo ha fatto ancora per la tenuta usata durante la sua permanenza nella sede estiva del Viminale, nel Bagno Papeete di Milano Marittima) e si atteggia a profeta: “Vogliamo un’Italia che si rialza, che investe, che dà lavoro, piena di gru e cantieri”.

È un auspicio condiviso (anche gli orologi rotti due volte al giorno segnano l’ora giusta), salvo pretendere a nostra volta una risposta ad alcune domande: perché quando Salvini era un influente vice presidente del Consiglio ha dato priorità a interventi discutibili e onerosi in materia di pensioni (che non sono serviti a rilanciare l’occupazione) e ha dedicato il suo tempo a fomentare i peggiori sentimenti degli italiani contro “l’invasione” degli ultimi della terra e a perseguitare coloro che avevano un qualche titolo per restare (si veda l’abolizione del soggiorno per motivi umanitari)?

E perché il Capitano e il suo partito, di cui Alberto Bagnai è il responsabile economico – in verità meno pittoresco del suo predecessore – si affannano a spernacchiare – a partire dal Mes – le istituzioni europee che hanno indirettamente accolto le richieste avanzate da Salvini stesso, titillando gli umori degli ex alleati grillini e indirettamente la linea di condotta del premier Conte, costretto ad arrampicarsi sugli specchi nei negoziati di Bruxelles? Potremmo anche citare le considerazioni svolte in un’intervista dell’ex ministro Giovanni Tria nella quale il titolare del Mef, quando il mix giallo-verde andava di moda, ricordava di aver proposto una riduzione delle tasse, ma Salvini lo aveva stoppato imponendo, nella Legge di bilancio, Quota 100 e dintorni.

Comunque stiano le cose e accertato che da quel pulpito non può venire la predica, il problema esiste ed è grave. Tanto più che il Paese ha necessità di infrastrutture, di risanamento ambientale, di riqualificazione delle periferie, di digitalizzazione del territorio e dei servizi (la questione si è posta in maniera evidente nel corso della quarantena, quando le zone prive di strutture informatiche all’altezza sono rimaste isolate ed escluse da un minimo di vita sociale); il Paese dispone delle risorse e dei progetti che potrebbero dare corso a tali iniziative e si appresta a ricevere altri stanziamenti. Ma “il cavallo non beve”. Tutti reclamano l’avvio dei cantieri, ma lo fanno coi medesimi riti con i quali una tribù indigena invoca la pioggia in tempi di siccità prolungata.

Anche il piano Colao ha individuato il volàno dell’economia nelle iniziative per le infrastrutture e l’ambiente e suggerito una serie di azioni specifiche, la più importante delle quali riguarda la sostituzione del Codice degli appalti con l’applicazione delle direttive Ue.

Oggi si assume il modello Ponte di Genova come linea-guida per la gestione delle grandi opere. In sostanza, si riconosce che per agire non devono essere rispettate le leggi ma a esse si deve derogare in regime di scudo penale per gli amministratori. È una situazione paradossale che non può diventare la regola, come se l’assegnazione degli appalti potesse essere redatta alla stregua del salvacondotto che il cardinale Richelieu ne I tre moschettieri, rilascia alla perfida Milady: “È in mio nome e nell’interesse dello Stato che il latore della presente ha fatto quel che ha fatto”.

Il Codice degli appalti si basa su una presunzione: le assegnazioni di opere sono inficiate da corruttela, traffico di influenze, concorso esterno in associazione criminale. E quindi lo scopo del Codice non è quello di far lavorare le imprese, ma di ostacolarne l’attività finché non dimostrano di essere innocenti come una novizia.

Ma l’avete sentita una delle ultime esternazioni televisive di Piercamillo Davigo? È riportata tra virgolette sul Foglio del 30 maggio e riguarda il carico di adempimenti amministrativi che rallenta gli appalti e crea problemi alla ripresa dell’economia. “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura – ha proposto Davigo – a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo ‘tu questa gara non la devi vincere’ lo arresta così facciamo prima?”. Questo è il pensiero di un esponente di primissimo piano della magistratura e del Csm. Non abbiamo già capito tutto? Non è chiaro perché la cosiddetta burocrazia fa lo sciopero bianco della firma?

Propongo di fare una scommessa. Se ripartirà – speriamo di no – la pandemia, i medici e il personale sanitario saranno meno eroici che nella prima fase. Si sono gettati disarmati nella mischia contro il virus, hanno lavorato in turni massacranti, anche a rischio di ammalarsi e di morire. Adesso quelle persone che li elogiavano dai balconi si sono organizzati in “comitati per conoscere la verità”, presentando esposti a destra e a manca. E le Procure sono uscite dai tribunali – subito chiusi per il virus – arrogandosi il diritto di accertare quali sarebbero state le decisioni più opportune da prendere quando le amministrazioni e i dirigenti sanitari, nonché gli stessi medici dei reparti erano chiamati a farlo nel giro di ore se non di minuti.

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