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Una soap e un talk show televisivo possono fare il soft power di un Paese? In Australia sono convinti di sì. Per questo il governo ha trovato un alleato prezioso per respingere l’influenza della Cina nella regione: la Tv. È il Financial Times a raccontare l’ultimo fronte di un’escalation di tensioni fra Canberra e Pechino che non ha precedenti nella storia dei rispettivi rapporti diplomatici. L’ultimo strappo, la richiesta del governo guidato dal premier liberale Scott Morrison di un’indagine per accertare le responsabilità del governo cinese nella diffusione della pandemia da Covid-19.

Il nuovo braccio di ferro si gioca in una regione da tempo contesa fra i due Paesi: il Pacifico. I piccoli Stati e gli arcipelaghi al largo dell’Australia sono storicamente al centro di un braccio di ferro con la Cina. Militare, politico. Adesso anche mediatico.

Il governo australiano ha annunciato che da questa settimana mille ore di programmazione della tv commerciale australiana saranno rese disponibili in sette Stati del Pacifico, senza costi aggiuntivi. L’operazione costerà la bellezza di 11 milioni di dollari alle casse di Canberra. Ma per la maggioranza di Morrison l’obiettivo finale li vale tutti: nelle parole del ministro degli Esteri Marise Payne, “avere l’opportunità di guardare le stesse storie sui nostri schermi non farà che approfondire i legami con la nostra famiglia del Pacifico”.

Nel pacchetto di programmi c’è di tutto. Talk show politici di fama mondiale come l’americano 60 Minutes, ma anche Talent come MasterChef e show come Neighbours. C’è perfino Border Security, uno show che illustra le misure del governo australiano contro l’immigrazione clandestina e il rafforzamento dei confini. Un messaggio velato a Pechino, che di recente sui visti ha avuto più di uno scontro con i vicini australiani.

È anche questo il soft power teorizzato trent’anni fa dal politologo americano di Harvard Joseph Nye. Con la tv, il governo australiano spera di recuperare gli Stati vicini finiti nell’orbita di influenza cinese. Non è obiettivo facile, visto quanto in profondità è arrivata la penetrazione dell’ex Celeste Impero nell’isola, dagli Istituti Confucio nelle università alle donazioni cospicue a centri di ricerca e think tank.

Da qualche anno è in corso un backlash dell’avanzata cinese con un movimento di rivolta nell’opinione pubblica australiana, cui si sono associate le autorità. Già in passato il governo aveva tagliato i fondi all’Abc, riporta il Financial Times. Il motivo? Non aveva dato abbastanza spazio alla “programmazione australiana”, in un periodo in cui emittenti e media cinesi come il foglio di partito China Daily facevano man bassa di contratti e abbonamenti con i giornali locali australiani.

Viene da chiedersi se la mossa del governo di Canberra possa “fare scuola” anche in Europa, dove proprio in questi mesi di emergenza sanitaria si fa strada il dibattito sulla propaganda cinese, facilitata dalle numerose intese con i media europei, e sulle strategie da mettere in campo per contrastarla. È il caso dell’Italia, che dal marzo del 2019, quando ha firmato il memorandum per la Via della Seta cinese, è entrata nell’orbita della narrazione mediatica filogovernativa cinese.

Edoardo Novelli, sociologo dell’Università di Roma Tre ed esperto di comunicazione politica, ha i suoi dubbi sulla possibilità di replicare in Europa il modello australiano. “Sembra nuova, ma è vecchia, vecchissima scuola – dice a Formiche.net – i programmi di intrattenimento sono sempre stati come veicolo di diffusione di un modello culturale e politico. Penso all’Italia del dopoguerra, ai notiziari americani in italiano e all’arrivo di serie come Happy Days. Ma anche, in seconda battuta, al tentativo dell’Urss di produrre ed esportare film che esaltassero il modello del Partito.

Nessun dubbio, dunque, sulla potenza dello strumento televisivo. Ma la penetrazione cinese in Europa non è arrivata ancora al punto da mettere in discussione il modello culturale e commerciale importato dagli Usa, spiega Novelli. “La Cina si sta muovendo soprattutto attraverso i canali commerciali, ma sa di aver di fronte una cultura e un immaginario popolare pienamente inseriti nel blocco occidentale. Dalla tv commerciale ai social network, in Italia tutto rimanda al modello americano, cioè al modello “globale” della società”.

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