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In politica, come nella vita, per uscire da una condizione di stallo, a volte c’è bisogno di un passo laterale. Nel gioco degli scacchi è la mossa del cavallo. Matteo Renzi l’ha teorizzata nel suo ultimo pamphlet, ma è stato Silvio Berlusconi a metterla in pratica ieri con un’intervista a La Nazione, poi opportunamente diffusa.

D’altronde, per essere tale, la mossa del cavallo deve essere improvvisa, inaspettata, deve cogliere di sorpresa sia gli alleati sia gli avversari. Ecco, allora che, mentre tutti i partiti, tranne i Cinque Stelle, si macerano sul referendum confermativo del taglio dei parlamentari, ma non hanno il coraggio, chi in un modo chi nell’altro, di contraddirsi (la legge fu approvata in Parlamento con una maggioranza “bulgara”), il Cavaliere rompe gli indugi e dà una chiara indicazione per il No.

Bisogna notare che questo referendum, che si pensava fosse di semplice routine anche per l’esito scontato che si prevede a favore del Sì, sta assumendo sempre più un aspetto destrutturante: sia per i partiti di governo e di opposizione (eccezion fatta per Fratelli d’Italia), sia per l’intero sistema politico italiano. È come se in esso fosse venuta allo specchio, d’un sol colpo, la malattia profonda dell’Italia politica, in sostanza quella “mancanza di serietà”, per dirla con Giovanni Orsina, che ha caratterizzato in questi anni il rapporto dei partiti fra di loro, con gli italiani e con il delicato sistema istituzionale e costituzionale che abbiamo ereditato.

Non solo, in questa situazione, i grillini hanno potuto sostituire alla politica il marketing più spinto con battaglie, come questa, di sola immagine e senza sostanza, che anzi può avere seri effetti controproducenti, vedendosi persino assecondati, chi prima e chi poi, da tutti gli altri partiti interessati a governare con loro. Queste forze politiche hanno fatto finta tutte che quegli effetti non ci fossero, o comunque hanno ritenuto che come Parigi valessero bene una messa. Salvo poi scoprire (il Partito Democratico) che lo scambio chiesto per salvarsi la faccia, per quanto asimmetrico (non si scambia una modifica della Costituzione con pur importanti leggi di normale amministrazione parlamentare quali sono quelle elettorali), era pure impraticabile in tempi brevi. E salvo scoprire (la Lega e il centrodestra) di fare con il Sì una campagna per i Cinque Stelle, che la sera del 21 settembre potranno intestarsi la vittoria da soli, neutralizzando in questo modo le conseguenze della consultazione per loro sicuramente sfavorevole nelle sette Regioni in cui si vota. E allontanando verosimilmente la crisi di governo e quindi le tanto legittimamente agognate elezioni politiche.

Berlusconi, capito il cul de sac in cui ci si è cacciati, ha avuto per primo il coraggio di uscire allo scoperto. Lo ha fatto sicuramente per interesse, ma mai come in questo caso l’interesse converge con il bene del Paese. Come dicevamo all’inizio, nella coalizione di centrodestra, che pure è la sua casa, oggi il Cavaliere si trova a disagio perché non può esercitare ciò che più gli è congeniale: una vera leadership. Egli cerca quindi di differenziarsi dagli alleati, quando può, anche se sa che non può cambiare campo anche perché gli elettori non capirebbero la sua scelta (ragione che lo ha spinto recentemente a firmare un Patto di fedeltà patrocinato da Giorgia Meloni).

Il No al referendum non solo non è però giudicato strategicamente importante, ma va incontro anche a certe tiepidezze degli alleati. Potrebbe fare da apripista, (chissà?), a un altro colpo di scena: un loro ripensamento. Forse è fantapolitica, così come lo è pensare che comunque, anche se ciò avvenisse, ciò basterebbe a convincere gli italiani a bocciare la legge. Eppure, bisognerebbe avere la forza di far capire loro che il taglio dei parlamentari non solo non è una battaglia anticasta, ma fa perdere ulteriore potere decisionale ai cittadini. Al danno, la beffa.

Sul referendum Berlusconi spiazza ma convince. La bussola di Ocone

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