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Il Pil cinese è al collasso: mai la Cina aveva registrato una contrazione economica dal 1992, quando il Paese ha iniziato a pubblicare i dati relativi all’andamento trimestrale dell’economia. Ma il cattivo stato di salute dell’economia cinese non è l’unica cosa che toglie il sonno al presidente Xi Jinping: c’è infatti grande preoccupazione a Pechino circa il futuro delle aziende giapponesi che hanno delocalizzato in Cina. Timori che nascono da alcune mosse da “Japan First” da parte del premier giapponese Shinzo Abe.

Ma andiamo con ordine. Come raccontato da Formiche, il Prodotto interno lordo della Cina ha subito una contrazione del 6,8% su base annua nel primo trimestre del 2020, a causa delle ricadute della pandemia del coronavirus, che ha portato all’isolamento e all’arresto temporaneo delle attività economiche in diverse aree del Paese. Pechino ha praticamente azzerato la sua crescita, visto che già sul finire del 2019 il Pil cinese si era attestato su volumi di crescita vicini al 6%.

Nelle stesse ore in cui la Cina pubblicava le sue statistiche, la Nikkei Asian Review analizzava le mosse del premier giapponese Shinzo Abe per rispondere alla crisi economica dovuta alla pandemia di coronavirus. Obiettivo: “costruire un’economia meno dipendente da un Paese, la Cina, in modo che la nazione possa evitare più facilmente i problemi sulla catena di approvvigionamento”. Come? Riportando indietro la produzione o, al massimo, diversificando verso i Paesi dell’Asean, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (di cui non fa parte la Cina).

La mossa è stata annunciata durante una riunione del Consiglio per gli investimenti per il futuro a cui hanno partecipato figure del calibro di Hiroaki Nakanishi, presidente della Japan Business Federation, la più grande organizzazione del Paese meglio conosciuta come Keidanren. E ha acceso il dibattito nel mondo politico cinese che teme pesanti ripercussioni sul modello di crescita a lungo termine del Dragone. Una fonte economica cinese ha spiegato alla Nikkei Asian Review che i leader del Partito comunista cinese e il governo di Pechino sono preoccupati dalla possibilità che le società straniere lasciano la Cina. “Ciò di cui si è parlato in particolare è la clausola del pacchetto economico di emergenza del Giappone che incoraggia (e finanzia) il ripristino delle catene di approvvigionamento”.

Una vera e propria politica di “allontanamento dalla Cina”, nota la Nikkei Asian Review. Nel suo pacchetto economico di emergenza adottato il 7 aprile, il governo giapponese ha stanziato oltre 240 miliardi di yen (circa 2 miliardi di euro) per aiutare le aziende giapponese a rientrare in Giappone o a diversificare le loro produzione nel Sud-Est asiatico. Sembra esserci un asso Giappone-Stati Uniti: anche Larry Kudlow, consigliere economico della Casa Bianca, spinge per finanziamenti al rientro delle aziende americane dalla Cina in linea con l’agenda “America first” del presidente Donald Trump. “Se gli Stati Uniti e il Giappone, rispettivamente la prima e la terza economia del mondo, si allontanano dalla Cina, questo avrà un impatto enorme sulla seconda economia più grande del mondo”, scrive il giornale giapponese.

Qualcosa si muove in questo senso anche in Europa. Basti pensare che Renault ha recentemente rivisto la sua strategia in Cina, rinunciando alla produzione di vetture in joint venture con Dongfeng. Ma serve una pianificazione seria per una grande campagna di rientro di aziende, capitale e intelligenza. Il governo italiano è avvertito.

Volete rafforzare l’industria nazionale? Ecco il modello giusto, giapponese

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