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Anche se il virus continua a infettare e a mietere vittime, il confronto politico si fa largo in questa tempesta di smarrimento e volontà di resistenza.

Penso non debba cadere nel vuoto il tema che Angelo Panebianco ha sollevato nel suo editoriale (Corriere della Sera – 27 marzo). Mi riferisco in particolare a quel passaggio che appare come una vera e propria reprimenda indirizzata a un “certo cattolicesimo politico”, colpevole di nutrire avversione per l’economia di mercato a motivo di un pregiudizio di tipo pauperistico. Non è un rilievo di poco conto, per quanto escluda generiche estensioni. Panebianco, in effetti, chiama in causa coloro che “sono capaci di attribuire alla ricchezza la responsabilità, anzi la colpa dell’alto prezzo che stanno pagando la Lombardia e le altre aree ricche (ossia produttive) del Paese”.

In realtà, si stenta a dare un volto a questi cattolici che sarebbero ossessionati dalla ricchezza e convinti, a proposito della Lombardia, dell’intervento punitivo di Dio. Forse non ce ne sono affatto o non sono visibili. Sta di fatto che il cosiddetto cattolicesimo politico, la cui espressione apicale è stata il partito che per mezzo secolo ha governato il Paese, ha saputo filtrare e depurare l’innegabile antiliberalismo delle sue lontane origini, tanto da riuscire, dal dopoguerra in avanti, in un’opera di non disprezzabile mediazione tra democrazia e capitalismo. Ora, il giudizio storico sulla Dc può essere diversamente articolato, ma non fino al punto di cancellare questa semplice verità di fondo.

È curioso tuttavia notare come l’analisi di Panebianco, seppur appena abbozzata, riproponga la polemica che ha investito a lungo la sinistra democristiana. Si pensi alla scomunica dei benpensanti per le battaglie di La Pira, sindaco di Firenze, a sostegno della “povera gente” (disoccupati, senza tetto, emarginati). Senonché, negli ultimi anni, questa critica ha preso altri sentieri e si è persa, rimanendo come residuo della più ampia e indistinta critica alla cultura e alla politica della sinistra. Qui pesa la profezia di Del Noce, fatta propria dalla destra anticonciliare, circa il capovolgimento in senso borghese della rivoluzione secondo la lezione di Gramsci: sicché la sinistra, nella sua trasformazione in veicolo del neo capitalismo globalizzato, trascinerebbe nel baratro la sua “costola cattolica”.

Dunque, chi ha ragione tra Panebianco e gli emuli di Del Noce? È il censore del pauperismo cristiano o sono gli inquisitori dell’eresia catto-globalista a mettere a fuoco la critica più rigorosa? Dov’è l’errore, in definitiva, dei progressisti che muovono da una motivazione di fede? E soprattutto, fino a che punto è lecito alterare, senza un criterio rispettoso di evidenze significative, i connotati del cattolicesimo democratico?

Sembra di poter dire che è un altro l’asse della discussione. Bisogna intendersi, cioè, sulla possibilità di attualizzare un’esperienza di partito. Infatti, l’aggiornamento dell’eredità di Sturzo, De Gasperi e Moro implica un che di problematico a proposito della sua riproposizione in chiave di autonomia politica e organizzativa. Ciò si configura, in ogni caso, nei termini di una proposta assai lontana, anzi decisamente altra rispetto al doppio errore di pauperismo e laissez-faire economico finanziario. Si colloca piuttosto, senza scomodare il concetto di terza via e senza immaginare soluzioni preconfezionate, nella dimensione di una nuova e coraggiosa sintesi popolare, nel solco della visione cara ai democratici di ispirazione cristiana del “centro che muove verso sinistra”.

Il problema politico è che oggi, finita l’esperienza della Dc e finita anche la stagione del bipolarismo, questo centro non esiste. Spettava al Pd farsene carico, essendo nato come punto di aggregazione di più filoni democratici, ma lo sviluppo in senso sinusoidale del suo programma accenna più volentieri all’assorbimento del “punto di vista cattolico” nel quadro di una sinistra post-ideologica. Sta qui una causa non secondaria della perdita di consensi elettorali rispetto a qualche anno fa. È ancora in tempo per adempiere alla sua originaria vocazione di “partito nuovo”, capace di gettare un ponte tra sinistra e centro? Qualche dubbio è lecito nutrirlo.

Ciò non toglie però che attorno a un determinato vuoto, per il quale la politica di centro assume la figura di chimera, non debba intanto esercitarsi la fatica di una interrogazione tutta nuova. Certamente vogliamo guardare avanti e sperare, dopo questo terremoto devastante, in una prospettiva di ripresa morale e materiale del Paese. Se è vero che nulla sarà come prima, specie per la necessità di una complessa transizione a un diverso modello di sviluppo, anche la politica dovrà congedarsi dal suo usurato presente.

Pertanto rimescolare le carte, con l’obiettivo puntato su un nuovo equilibrio democratico, consente di ragionare sul riscatto di un’opzione genuinamente riformatrice, fatta di concretezza e lungimiranza, che abbia nel centro un suo effettivo motore di sviluppo.

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