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Sulla stampa l’hanno ribattezzata “la rivolta dei generali”. Ma le rivolte sono spesso organizzate, studiate, preparate in anticipo. Non lo è stata la denuncia unanime di alcuni dei più celebri generali a quattro stelle degli Stati Uniti contro l’amministrazione di Donald Trump e la sua gestione delle manifestazioni seguite all’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Ha fatto rumore la condanna senza appello di James Mattis, già segretario alla Difesa di questa amministrazione. Non ne ha fatto meno quella del generale John Allen. Presidente di Brookings, già comandante della missione Nato Isaf in Afghanistan, poi inviato speciale degli Stati Uniti alla guida della Coalizione globale contro l’Isis, Allen ha firmato un editoriale su Foreign Policy destinato a rimanere impresso nei prossimi mesi. Con Formiche.net, ripercorre quelli che chiama i “giorni rivelatori” della democrazia americana. Quelli in cui centinaia di manifestanti sono stati “respinti con la forza” dalla polizia, di fronte a una Casa Bianca in cui, oggi, “non c’è nessuno”.

Generale Allen, la sua è una denuncia molto severa. Davvero questa situazione è senza precedenti?

Abbiamo vissuto altre sfide. Ci sono stati periodi della storia americana in cui abbiamo visto attacchi su larga scala contro manifestanti pacifici. Ricordo bene gli anni ’60, l’assassinio di Martin Luther King e i disordini che sono seguiti nel Paese. I problemi di allora, l’ingiustizia sociale, la discriminazione contro i neri e altre minoranze, non sono stati risolti. George Floyd è il simbolo non di anni, non di decenni ma di secoli di ingiustizia sociale contro i neri.

Qual è allora la vera novità?

Oggi questa ingiustizia si interseca con la frustrazione degli americani per una crisi senza precedenti. Abbiamo 107.000 morti, 2 milioni di infetti, 40 milioni di persone senza lavoro, l’intera popolazione in quarantena.

Fra alcuni dei manifestanti ci sono stati dei violenti.

Smentiamo un luogo comune. La grande maggioranza di chi è sceso in strada è composta di manifestanti pacifici. Sono guardiani della Costituzione. Il primo emendamento dà agli americani il diritto di dissentire e la libertà di parola. Non dà loro il diritto di organizzare sommosse o bruciare edifici. Queste sono attività criminali che richiedono l’intervento delle Forze dell’ordine.

L’intervento è avvenuto, questo lunedì.

Il presidente, poco dopo aver deriso i governatori per essere troppo deboli con i manifestanti, in piedi nel suo giardino, ha promesso di “aggiustare le cose” inviando in strada migliaia di truppe. L’America dovrebbe essere governata dallo Stato di diritto, da un senso profondo dei diritti dei cittadini. Invece abbiamo un linguaggio infiammatorio e provocatorio, e un presidente che si auto-proclama “alleato” dei manifestanti pacifici. Mentre lo dice, si sentono sullo sfondo il rumore delle granate stordenti per spaventare chi era in strada. Poi, un gesto di pura pubblicità.

La passeggiata dalla Casa Bianca alla chiesa di St. John.

Da un momento all’altro, i manifestanti si sono visti spinti fuori dalla strada da polizia in tenuta antisommossa, che li ha respinti con scudi, manganelli, gas lacrimogeno, spray al peperoncino. Tutto questo perché il loro presidente “alleato” voleva farsi una passeggiata fino alla chiesa e urlare “Make america great again”. Questo non è il popolo americano. Questa non è America.

Allen, con lei altri generali si sono espressi con giudizi severi su questa amministrazione. Perfino James Mattis, che ne è stato un pilastro. Vi siete coordinati?

No, assolutamente. Nelle scorse ore quattro generali a quattro stelle hanno condannato le azioni del presidente. Nessuno di noi si è parlato prima. Non ho sentito Mattis. Potrei farlo, ma sarebbe ancora più importante non farlo. Il nostro è un messaggio spontaneo, uscito in contemporanea, e questo la dice lunga.

Cosa può fare il prossimo presidente per far fronte a un problema che, come ha detto lei, esiste da secoli?

Non voglio sbilanciarmi in pronostici. Posso solo dire che i due candidati attuali non potrebbero avere visioni più diverse. Se un presidente è davvero impegnato nel cambiamento sociale, allora deve mettersi alla testa del processo legislativo.

Cioè?

Deve seguire e spronare i lavori del Congresso, chiedere di cambiare o di introdurre leggi che rendono l’America uguale per tutti i cittadini. Questo è l’impegno che sentiamo da parte di un solo candidato. Il sistema di diritto dovrebbe essere goduto da tutti i cittadini. Oggi lo è solo da alcuni. Il presidente dovrebbe preoccuparsi di questo, piuttosto che promettere di scatenare l’esercito contro i suoi cittadini.

Lei ha scritto che, oggi, alla Casa Bianca “non c’è nessuno”. Vale anche per la politica estera?

Il bilancio di questa presidenza è evidente. Ci siamo ritrovati ai ferri corti con i nostri alleati più preziosi. Abbiamo stretto amicizia con gli uomini forti e totalitari che vantano una “relazione speciale” con il presidente degli Stati Uniti. Abbandonato il multilateralismo e la leadership americana nel mondo. Quando lavoravamo fianco a fianco ai nostri partner eravamo più forti. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale il sistema di stato di diritto internazionale ha garantito un’alleanza fra democrazie, non solo occidentali. Non c’era nulla che, insieme, non potessimo affrontare. Oggi il detto “Maga” si traduce in “Rendi l’America più sola”.

Un solo tema di politica estera è entrato nella campagna per le presidenziali: i rapporti con la Cina. Ormai da entrambe le parti si sente parlare di Guerra Fredda. Ci sono ancora spazi per collaborare?

Ci dovrebbero essere. Difficile riconoscerli se nella Cina vedi solo un avversario. La minaccia cinese serve a questa amministrazione come perno attorno al quale consolidare il suo supporto politico. Stiamo perdendo molte opportunità.

Ma ci sono anche molte divergenze. Il caso di Hong Kong è una di queste.

Chiarisco: ci sono dei fronti in cui non dovremmo mai allinearci con la Cina. I diritti umani, anzitutto. Così come dovremmo mettere la Cina di fronte alle sue responsabilità, come il furto di proprietà intellettuale nell’alta tecnologia. Ma ci sono aree non secondarie in cui possiamo trovare non valori ma interessi comuni. Il Covid-19, la tutela dell’ambiente, la tecnologia e lo spazio digitale. Ci sono occasioni che gli Stati Uniti stanno perdendo. L’Intelligenza artificiale, il deep learning, il super-comuting sono tutti settori dove dobbiamo lavorare insieme ai cinesi. Non dovremmo scontrarci con loro, ma competere, e superarli.

Dal caso Floyd alla Cina, se alla Casa Bianca non c'è nessuno. Parla il generale Allen

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