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Nell’interessante intervista rilasciato al bravo Ilario Lombardo de La Stampa il nostro Ministro degli Esteri Luigi Di Maio torna a parlare diffusamente di Libia (come è giusto che sia) e lo fa lanciando una proposta suggestiva: la creazione di un contingente militare internazionale di “pacificazione” da inviare laggiù per stabilizzare la situazione ed evitare nuovi sanguinosi conflitti.

Di Maio utilizza come termine di paragone in positivo quello del contingente Unifil che opera nel sud del Libano (e che da moltissimi anni vede dispiegato un robusto contributo italiano sia in termini di truppe che di mezzi), avendo cura di precisare che dovranno essere la autorità libiche a chiederne l’intervento e però mantenendo una certa ambiguità tra l’ipotesi di un contingente Onu ed uno dell’Unione Europea.

Ebbene questa proposta del nostro Ministro merita di essere analizzata perché essa rappresenta una evoluzione molto significativa della posizione tenuta dall’Italia in questi anni, evoluzione che però non viene affatto presentata come tale.

Inoltre si tratta di una idea del tutto nuova rispetto alle intenzioni dei più rilevanti soggetti presenti sul teatro libico ed anche per questo occorre ragionarci su.

In buona sostanza l’idea è condivisibile sul piano teorico, ma appare assai fragile su quello politico e, particolare non da poco, strategico-militare.

Per capirci meglio però occorre anche un minimo di storia, cominciando proprio dal Libano e dalla missione che opera a sud di Tiro e fino al confine con Israele.

Questa missione (nella sua prima versione) tra origine da due risoluzioni della Nazioni Unite (la 425 e la 426) del marzo 1978, momento in cui viene decisa e finanziata. Quindi essa è figlia di un altro mondo, basti pensare che siamo nel pieno della guerra fredda (Reagan arriverà alla Casa Bianca due anni dopo), a Mosca c’è l’Unione Sovietica, Mao Zedong è morto da meno di due anni e a Teheran regna Mohammad Reza Pahlavi (già in crisi però). Siamo cioè in una fase della relazioni internazionali in cui le Nazioni Unite sono ancora al centro delle dinamiche di pace (o meglio dei tentativi che ad essa tendono), poiché il mondo è essenzialmente diviso in due blocchi, che hanno a Washington e Mosca le rispettive capitali.

Oggi però siamo nel 2020 e quel mondo è finito, morto, sepolto.

Oggi operano aggressivi protagonisti nazionali (potremmo dire sovranisti) che non concedono un millimetro di spazio all’Onu e che nel 1978 non erano in grado di giocare un ruolo di peso (Iran, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Algeria) oppure antichi protagonisti che però oggi operano senza alcun ossequio alla logica dei blocchi (Russia, Cina, Turchia, Egitto).

Ciò vale anche in Europa, dove è orami del tutto evidente che ognuno gioca per proprio conto: UK perché ormai fuori dalla UE, francesi perché sempre capaci di anteporre l’interesse nazionale a quello comunitario, tedeschi perché sempre interessati a mantenere la propria leadership economica.

Ecco quindi una prima imponente fragilità della proposta di Di Maio, che si appoggia su istituzioni sovranazionali ormai quasi impotenti sul piano geo-politico (e ciò vale anche se consideriamo la seconda versione della missione in Libano, quella avviata nel 2006 con la risoluzione 1701 dopo un’assenza di molti anni delle truppe internazionali nell’area).

A ciò si aggiunge l’elemento di principale novità della tesi del Ministro, ma anche qui occorre un minimo di storia.

Dalla caduta di Gheddafi in poi noi abbiamo sempre sostenuto il governo di Tripoli, guidato negli ultimi anni da Fayez al-Serraj. Se però ora proponiamo un contingente di interposizione significa che abbiamo cambiato linea (come peraltro emerso già nei mesi scorsi), perché vuol dire prendere atto che le autorità di Bengasi sono ormai realtà non eludibile. Vuol dire quindi accettare una volta per tutte il fatto che l’offensiva militare del generale Haftar ha avuto successo e che con lui si devono fare i conti non come un usurpatore ma come un soggetto pienamente deputato a trattare (e infatti Conte lo ha ricevuto con tutti gli onori a Palazzo Chigi in settimana). Tutto ciò però è una cocente sconfitta politica italiana e della diplomazia UE (in parte anche degli americani) ed è un vittoria nettissima di Egitto, Arabia Saudita, Russia e Francia, cioè i principali sostenitori del generale.

Infine c’è un ultimo aspetto molto rilevante da considerare in merito alla proposta di Di Maio.

Lui giustamente dice che dovranno essere i libici a chiedere questo contingente.

Ma è proprio sicuro il nostro ministro che in Europa c’è qualcuno disposto a seguirlo?

O non è assai più probabile che Francia, Germania e Gran Bretagna preferiscano continuare a fare da sole?

E cosa gli fa pensare che Turchia e Qatar (sul lato di al-Serraj) ed Egitto e Russia (sul lato di Haftar) vogliano soldati europei o caschi blu (con tutto ciò che ne consegue in materia di intelligence)?

E ancora: perché l’amministrazione Trump (in evidente marcia di avvicinamento ad Haftar anche grazie ad un più stretto rapporto con Mosca che sta dando frutti su vari fronti, a cominciare da quello della lotta al terrorismo) dovrebbe appoggiare tale iniziativa, essendo chiaro a tutti che la Casa Bianca non considera l’Onu strumento adeguato per la soluzione delle controversie internazionali (e l’eliminazione del generale Soleimani è la prova brutale di tale impostazione politica)?

Insomma la proposta del nostro Ministro pare ispirata a nobili e costruttive intenzioni, ma votata più a servire sul piano della politica interna che per essere presa in esame nelle sedi internazionali.

Di Maio sulla Libia: proposta nobile ma fragile. Anzi fragilissima

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