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Una grande operazione verità. Anche questo è stata la pandemia del Covid-19 per chi ci ha fatto i conti. Cina, per prima. Ma anche Ue e Usa, che ora devono trovare in fretta un modo per ripartire.

La crisi ha colpito entrambi. Ma gli anticorpi non sono gli stessi. Un confronto è stato fatto in un recente seminario al Centro Studi Americani, con gli economisti Carlo Cottarelli e Dominick Salvatore, l’inviato del Corriere della Sera Massimo Gaggi, Stefano Lucchini, capo delle relazioni istituzionali di Intesa San Paolo.

Incalzati dalle domande di Maria Latella, si sono chiesti quale sponda dell’Atlantico uscirà per prima dalle paludi della crisi economica. Il verdetto è quasi unanime. Gli Stati Uniti, in proporzione, hanno una conta dei danni ancora più drammatica, a partire da chi, per il coronavirus, ha perso la vita. Ma l’economia americana ha qualche strumento in più per riaccendere i motori.

Le misure messe in campo, ha spiegato Cottarelli, direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica, non sono poi così dissimili. “Negli Usa c’è una prevalenza di misure che impattano sul deficit, in Europa, dopo l’eliminazione del vincolo degli aiuti di Stato, più sulle garanzie ai prestiti delle imprese”.

Non è la politica fiscale, ma quella monetaria che traccia un solco profondo fra Usa e Ue. La Fed, dice Cottarelli, ha annunciato “di fatto un Quantitative easing illimitato, la Bce un pacchetto da 1050 miliardi di euro, comunque un importo molto grande”. La differenza sta nell’ostruzionismo cui deve far fronte l’Ue. “L’incertezza che grava sull’Europa e non sugli Usa deriva dalla preoccupazione e le riserve avanzate dai Paesi dell’Europa del nord rispetto alle politiche della Bce, in America non esiste questo problema. In Germania ancora oggi la politica è divisa sulla sentenza della Corte costituzionale tedesca, Schauble ne ha preso le distanze, altri l’hanno sottoscritta”.

Per Salvatore, professore di Economia internazionale alla Fordham University, ci troviamo di fronte alla “più grande crisi economica del secolo”. Se un paragone si può fare, è quello “della Grande depressione del 1929”. Anche il professore però fa una tara impietosa fra gli strumenti in mano al governo americano e quelli mobilitati in Europa.

“Il governo Usa ha già erogato due trilioni di dollari, gran parte dei quali a fondo perduto, il 20% a prestiti con tassi molto agevolati. In Europa questo non si può fare, non perché non ci siano i soldi, ma perché manca la struttura per farlo. Quando è stata creata l’Eurozona i padri fondatori sapevano che a forza di insistere a creare una zona fiscale l’euro non sarebbe nato. Così la politica fiscale è stata sacrificata sull’altare di quella monetaria”.

Un deficit di cui si lamentava Jean Claude Trichet, racconta Salvatore, che dell’ex numero uno di Francoforte è amico da tempo: “Mi diceva sempre: quando vedo gli Usa fare politica fiscale mi innervosisco, l’Europa sembra rinchiusa in un camice di forza”.

Negli Stati Uniti, però, non tutto è oro quello che luccica, ricorda Massimo Gaggi, in libreria con un volume dal titolo eloquente, “Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti” (Corriere della Sera). Il sistema sociale ed economico statunitense, dice, vive “una crisi profonda”. “Arretratezza accumulata nelle infrastrutture e nel sistema sanitario, un tempo fiore all’occhiello. Nel mondo sviluppato la speranza di vita media cresce, negli ultimi anni negli Usa si è ridotta, era successo solo nell’Urss”.

Certo, riconosce anche il giornalista, l’economia americana ha delle leve che in Europa mancano. “Un mercato unico in cui il governo federale può intervenire senza chiedere il permesso all’olandese o al tedesco di turno. E la Fed ha un mandato molto più ampio della Bce, perché oltre la stabilità monetaria persegue lo sviluppo dell’economia, e immette più liquidità nel sistema”.

Fra Ue e Usa esiste un “denominatore comune”, spiega Lucchini, che consiste in “quattro emergenze coesistenti”. La prima è quella sanitaria: “Ha fatto emergere politiche diverse da una parte e dall’altra, anche negli Usa ci sono state carenze sanitarie importanti nonostante un’ottima reputazione del sistema”. Poi quella economica. Qui gli Stati Uniti “hanno optato per il cosiddetto helicopter money, in Europa c’è il Recovery Fund, i cui finanziamenti in buona parte sono a fondo perduto. L’Italia ha fatto una scelta peculiare, quella di mettere in piedi un sistema di garanzie dello Stato di cui anche la nostra banca (Intesa San Paolo, ndr) è protagonista. Infine le ultime due, che avranno un “enorme impatto sulle presidenziali del 2020”. Quella produttiva, che ha visto i Paesi Ue fare scelte diverse, “alcuni hanno continuato a produrre, l’Italia ha fatto un’altra scelta per gran parte dei settori”. E quella sociale che, dice Lucchini, è “ancora in corso”. Anche qui, l’Italia si è distinta, ma in positivo: “Gli italiani hanno dimostrato una generosità e una solidarietà senza precedenti con le donazioni”.

Una lancia a favore dell’Europa, però, va spezzata, dice Cottarelli. In fondo il Recovery Fund lanciato da Angela Merkel ed Emmanuel Macron è stata una prova di “leadership”. “Questa volta, bisogna riconoscerlo, l’Europa si è mossa incomparabilmente più velocemente e con importi più elevati che in passato – dice l’economista – checché se ne dica, il Mes ad uso sanitario è uno strumento rivoluzionario, e questa iniziativa franco-tedesca sul fondo per la ripresa non è scontata. La Francia si era contrapposta al “Club Med” di Italia, Portogallo, Spagna e Grecia, ora si è spostata portandosi dietro la Germania e ha lasciato isolati i famosi quattro frugali”.

Di leadership ne servirà parecchia all’Italia, soprattutto nei prossimi mesi, chiosa Lucchini. “La presidenza del G20 a partire dal primo dicembre è un momento cruciale per portare al centro del dibattito una serie di richieste. Assieme a una proroga auspicata degli aiuti di Stato e all’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce, quella posizione può rimettere l’Italia al centro della ripresa europea”.

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