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“Altro che Via della Seta”. C’è una chiave geopolitica con cui leggere l’annuncio dell’Ue di un Recovery Fund da 750 miliardi di euro, dice Enrico Borghi, deputato del Pd e membro del Copasir. Bruxelles batte un colpo, e così risponde anche a chi, un po’ frettolosamente, ne ha presagito la fine, cercando più a Est un sostituto. Dalle banche alla disinformazione (su cui Borghi ha appena stilato un rapporto votato all’unanimità dal Copasir), l’“alternativa cinese” presenta più di un effetto collaterale.

Borghi, i miliardi alla fine saranno 750.

È una grande vittoria dell’Italia. Di più: dell’Europa originaria, dei padri costituenti. Quella nata su una visione solidale, sulla comunità economica del carbone e dell’acciaio, mettendo comune le risorse che sono state al centro di due guerre mondiali. Questo Recovery Fund, con buona pace dei Paesi frugali, salva l’idea di Europa. E ha anche un significato geopolitico.

Sarebbe?

È una risposta dell’Europa a chi propone vie alternative. O vie della Seta. È da Bruxelles, non da Pechino, e dalla “trappola del debito” cinese, che arriva la risposta per uscire dalla crisi.

Enzo Amendola ha detto che, fosse stato al governo, quel memorandum sulla Via della Seta non lo avrebbe firmato.

Sottoscrivo tutto. E aggiungo: nelle prossime ore arriverà la risposta concreta a chi ha dato per “vinta” l’Europa. I finanziamenti del Recovery Fund, buona parte dei quali a fondo perduto, faranno svanire nel nulla queste suggestioni. Perché semplicemente non ci sono paragoni, numeri alla mano.

A proposito di Cina, lei è relatore dell’ultimo rapporto del Copasir sulla disinformazione dall’estero. L’Italia è sotto attacco di fake news. Ma lo scopriamo oggi?

No, è un fenomeno che è proseguito nel tempo. Come in tutti gli ambiti il Covid funge da acceleratore, insieme alla pandemia è cresciuta anche l’infodemia.

Ovvero?

Non è che un altro volto della vecchia disinformazia. Sono i nuovi strumenti che la rendono molto più preoccupante e pericolosa per la tenuta della democrazia. La possibilità che si diffonda una notizia falsa è molto più alta.

Perché?

Perché la catena della disinformazione si è fatta più fitta, e veloce. Ci sono siti di pseudo-informazione che pubblicano notizie verosimili, ma false. Poi rilanciate dalla messaggistica istantanea. Whatsapp in Italia ha 32 milioni di utenti, non sono spiccioli. Se a questo si aggiungono i bot, che fanno rimbalzare la fake news sui social, si ha un’idea degli ingranaggi. Finora è venuta a galla solo la punta dell’iceberg.

Nel rapporto fate due nomi: Cina e Russia. Stessa pasta?

Ci sono somiglianze e divergenze. Xi e Putin non ne fanno un mistero: vogliono superare l’ordine liberale. Entrambi sostengono che il regime autocratico è il regime del XXI secolo, e relegano al passato la democrazia liberale. Gli accordi di Shanghai del 2014 hanno dato vita a un partenariato strategico russo-cinese che è andato ben oltre un matrimonio di convenienza.

Se in Italia la propaganda ha tanto successo qualcuno deve fare sponda…

Non ci sono fiancheggiatori nelle istituzioni. Ci sono una serie di stakeholders, think tank, gruppi attivi sui social. Ma anche canali istituzionali.

Ad esempio?

C’è il caso clamoroso di Rainews. A marzo ha lasciato sul suo sito una fake news, smentita ufficialmente da fonti di intelligence, per cui il governo italiano aveva sottovalutato l’allarme Covid-19 lanciato dagli Usa. Era stata lanciata da esponenti del canale di Fox News con contatti con la Russia.

Come si risponde alle interferenze? L’Australia, ad esempio, ha stanziato 111 milioni di dollari per finanziare serie tv e talk show nel Pacifico e rispedire al mittente la propaganda cinese. Senza arrivare a tanto, l’Italia cosa può fare?

Intanto lavorare per una consapevolezza diffusa, e sul grado di acculturamento generale. Questo significa una maggiore sofisticazione del cittadino-elettore. Deve capire che non tutto quello che arriva dalla rete è verità rivelata. Poi, senza toccare la libertà di stampa, si può pensare a un codice deontologico per l’informazione.

Tornando alla Cina, avete intenzione di fare qualcosa per Hong Kong?

È doveroso farlo. Perché su Hong Kong si misura la cifra delle parole del governo cinese. Altro che ingerenza interna, qui si tratta di accordi internazionali. Nel 1997 la Cina ha preso un impegno di fronte al mondo. E la difesa dei diritti umani non può non riguardarci.

Al Copasir vi siete occupati di Cina anche in ambito economico. L’ultimo caso alla vostra attenzione è l’interessamento dell’italiana Ferretti a un’area del porto di Taranto, dove c’è una base Nato e dove sostano le navi della missione Ue Irini. La presenza di partecipazioni cinesi nell’azienda vi preoccupa?

Sulla struttura societaria ci sono le autorità competenti che possono intervenire, e in caso c’è il Golden Power. Più in generale, la dorsale adriatica che parte dal Pireo e dal Montenegro e ha come terminali Taranto e Trieste è geopoliticamente strategica per la Cina. È una ramificazione importante della Via della Seta, bisogna esserne consapevoli.

Borghi, al Copasir è in corso un ciclo di audizioni sul sistema bancario italiano. Un primo bilancio?

Sta emergendo la consapevolezza diffusa che dobbiamo fare un salto di paradigma nel rapporto fra Stato e banche. Serve costruire una logica di sistema, consentire al sistema bancario italiano di consolidarsi senza esporsi al rischio di possibili interventi stranieri non disinteressati.

Avete ascoltato Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Che ruolo può avere a sostegno delle aziende in difficoltà?

Il tema che poniamo su Cdp è molto semplice. L’Italia ha bisogno di un fondo sovrano. Abbiamo costruito un sistema di difesa valido. Di difesa alta, in pressing, per usare un termine calcistico. Il Golden Power è un esempio, ma è pur sempre difesa. Ora bisogna passare la palla a qualcuno che finalizzi il gioco.

Come?

Con regole precise, ferree. Che stabiliscono indirizzi, priorità e modalità di intervento. E un meccanismo di check and balances per evitare due rischi paradossali.

Quali?

Uno: che i fondi siano spesi senza un indirizzo o una finalizzazione. Due: che la politica pretenda di decidere anche il nome dell’usciere della singola filiale, o di mettere il veto sulle garanzie e i prestiti. Queste sono scelte del Cda delle banche. Lo statalismo becero non ci appartiene.

Recovery Fund uno, Via della Seta zero. Parla Enrico Borghi (Pd)

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