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Mentre l’emergenza coronavirus è nel pieno della sua forza esplosiva, in Italia e nel mondo, sono in molti gli esperti che stanno lavorando notte e giorno alla ricerca di un vaccino che possa mettere un freno a questa epidemia. Per capire come funziona lo sviluppo di un vaccino contro il Covid-19, e soprattutto quando potrà essere disponibile, Formiche.net ha intervistato Rino Rappuoli, esperto internazionale nel campo dei vaccini e responsabile scientifico GSK Vaccini.

Quanto tempo serve, normalmente, per immettere un vaccino sul mercato?

Lo sviluppo di un vaccino è un percorso lungo e complesso, che generalmente può richiedere un tempo compreso tra i 15 e i 20 anni. A differenza di altri farmaci, i vaccini non vengono somministrati a persone che già soffrono di una specifica malattia, ma a milioni di individui sani con l’obiettivo di aiutare a prevenire malattie. Per questo, accanto alla valutazione dell’efficacia, dobbiamo porre la massima attenzione al profilo di sicurezza del vaccino. E questo richiede tempo. Se la fase di sviluppo sperimentale in laboratorio può essere veloce, anche poche settimane, a questa dobbiamo aggiungere gli studi nei modelli animali, le tre fasi cliniche nell’uomo, l’industrializzazione della produzione del vaccino e, come accennavo, tutta la parte di regolamentazione e autorizzazione per garantire la sicurezza.

Questi tempi possono essere ridotti, in caso di emergenza? Se sì, fino a quanto?

In condizioni di emergenza, come nel caso dell’Ebola, i tempi sono stati ridotti a cinque anni. Oggi la disponibilità di tecnologie di ultima generazione ci consente di fare ipotesi di sviluppo ancora più ottimistiche, ma in ogni caso non vedo plausibile un tempo inferiore a uno-tre anni.

Quali sono gli step necessari per la creazione di un vaccino, in seguito all’esplosione di un’epidemia come quella del coronavirus?

Le autorità cinesi hanno da subito messo a disposizione della comunità scientifica internazionale la sequenza genetica del nuovo coronavirus e da quel momento, parliamo di inizio gennaio, decine di laboratori pubblici e privati di tutto il mondo hanno iniziato a lavorare in laboratorio al disegno del vaccino grazie alla disponibilità della sequenza del genoma di Covid-19. Le opzioni in campo, grazie alle nuove tecnologie, sono molteplici: c’è chi sta lavorando a vaccini tradizionali, più complessi da sviluppare ma di cui conosciamo l’efficacia; a vaccini a vettore virale (come quello contro Ebola) o che utilizzano virus vettori animali, fino ad arrivare a vaccini sintetici a RNA, la cui industrializzazione potrebbe essere più veloce ma fino ad oggi mai commercializzati. Certo, in caso di pandemia, le autorità regolatorie internazionali potrebbero richiedere standard meno stringenti, ma anche in caso di sviluppo accelerato il rischio-beneficio del candidato vaccino deve essere garantito.

Israele e Stati Uniti hanno dichiarato di essere vicini al vaccino… Ma che si intende, in questo caso, per “vicini”?

Non so a quali progetti si riferisce nello specifico, ma alcune aziende hanno annunciato pubblicamente che le prime sperimentazioni sull’uomo potrebbero partire già nel giro di qualche settimana. Andare in fase 1, dopo soli due mesi dall’avvio della ricerca in laboratorio, è un grande passo avanti; tuttavia, tutte le altre fasi dello sviluppo clinico e industriale, che sono quelle più lunghe, devono essere ancora realizzate.

Sappiamo che il vaccino per la Sars è stato messo a punto solo quando la malattia era ormai stata debellata. Come si fa, in questi casi, a preventivare e ad ammortizzare i costi di una cosa del genere?

Nel caso della Sars, nel momento in cui il vaccino era pronto per essere testato nell’uomo, la malattia era già scomparsa grazie alle misure rigorose di igiene e quarantena. Quindi il vaccino non venne mai usato. Oggi finalmente cominciamo a capire che dobbiamo investire in anticipo per essere pronti ad ogni eventualità. A livello internazionale è nato Cepi (Coalition for epidemic preparedness innovations), che ha raccolto 700 milioni di dollari per mettere a punto vaccini contro potenziali malattie emergenti. In questo momento Cepi sta operando come cabina di regia per lo sviluppo di candidati vaccini contro il coronavirus. È comunque mia ferma convinzione che ogni Paese dovrebbe investire in strutture capaci di intervenire rapidamente nello sviluppo di vaccini e anticorpi che, in casi come questi, sono essenziali per la sicurezza nazionale.

Oltre 9mila contagiati e più di 300 morti, con il rischio di un ulteriore peggioramento. Cosa si deve fare per frenare il contagio? Le misure adottate – glielo chiedo da un punto di vista esclusivamente scientifico – sono giuste, o insufficienti?

Oggi non abbiamo né vaccini né farmaci per affrontare il nuovo coronavirus. Gli unici mezzi che abbiamo sono igiene e quarantena. Il mantenimento della cosiddetta distanza sociale, l’isolamento e la quarantena delle persone affette da Covid-19, il rispetto delle più elementari norme di igiene sono fondamentali per rallentare l’ondata epidemica. I cinesi e i coreani ci hanno insegnato che se queste misure vengono applicate in modo rigoroso possono funzionare.

Abbiamo letto ovunque, ormai, che l’Italia ha fatto troppi tamponi e che questo ha generato il panico nella popolazione. Se a livello mediatico ha un senso, ce l’ha anche da un punto di vista scientifico? Se il coronavirus va debellato, non è strategico isolare tutti gli infetti, anche se in questo modo sembriamo il Paese con più casi positivi?

Come detto sopra, il rispetto delle misure è oggi più che mai fondamentale.

GSK cosa sta facendo per lo sviluppo di un vaccino contro il nuovo coronavirus?

GSK non sta sviluppando un vaccino. La nostra scelta è stata quella di dare il nostro contributo dove sappiamo di poter avere un maggiore impatto, quindi mettendo a disposizione la nostra piattaforma proprietaria di adiuvanti.

Con chi state collaborando?

Al momento sono due le collaborazioni che abbiamo avviato, quelle valutate più promettenti: una partnership con l’Università del Queensland, in Australia, attraverso il già citato Cepi, e una collaborazione con l’azienda cinese Clover Biopharmaceuticals. In entrambi i casi GSK metterà a disposizione il proprio adiuvante già consolidato per i vaccini pandemici.

Ci spiega cos’è un adiuvante?

Un adiuvante viene aggiunto a specifici vaccini per favorire la risposta del sistema immunitario, creando una immunità più forte e durevole nel tempo contro le infezioni rispetto a quanto farebbe un vaccino privo di adiuvante. L’utilizzo di adiuvanti è particolarmente importante in una situazione di pandemia perché può consentire la riduzione della quantità di antigeni necessari per ogni dose di vaccino, permettendo in tal modo di produrre un maggior numero di dosi di vaccino e di metterle a disposizione di un maggior numero di persone.

Le faccio una domanda collaterale. Quando l’abuso e l’uso scorretto di antibiotici può avere a che fare con casi come questo?

Adesso siamo giustamente concentrati sul coronavirus. L’antibiotico-resistenza è un’altra emergenza che inevitabilmente ci troveremo ad affrontare. Dobbiamo prevenire questa calamità sviluppando vaccini e anticorpi e attraverso tutte le misure necessarie per fronteggiarla. Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi, prima di ritrovarci in una situazione simile a quella del coronavirus.

Coronavirus, per il vaccino almeno un anno. Intervista a Rino Rappuoli (GSK)

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