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Economista, già ministro dell’Economia nazionale palestinese (prima donna a ricoprire la carica), Abeer Odeh è dall’ottobre del 2019 ambasciatrice palestinese in Italia (nonché Rappresentante Permanente presso le Agenzie delle Nazioni Unite FAO, IFAD e WFP). Un Master in Business Administration alla Kellog School of Management della Northwestern di Chicago, ottime connessioni col mondo cattolico italiano, Odeh è a Roma per proseguire quello che i suoi predecessori hanno costruito: la sensibilizzazione delle istituzioni italiane riguardo al dossier Palestina, dalle relazioni commerciali a quelle politiche.

Formiche.net l’ha raggiunta per una conversazione sulle evoluzioni di una delle più grandi contese geopolitiche della Storia, uscita parzialmente dall’attenzione – anche a causa della severità della crisi epidemica – ma ancora uno dei grandi fascicoli aperti. Uno di quelli, tra l’altro, su cui la pandemia potrebbe imprimere ri-modulazioni. E non solo: la formazione del nuovo governo israeliano e le elezioni statunitensi, sono ulteriori elementi interni ed esterni che pesano sul dossier; dove anche l’Italia ha un ruolo.

L’annessione degli insediamenti nel West Bank è stata inclusa nell’accordo per un governo di unità nazionale sottoscritto due settimane fa da Benjamin Netanyahu e Benny Gantz: secondo questo accordo il leader del Likud potrà portare avanti il progetto a partire del 1 luglio del prossimo anno. Qual è la situazione?

Evidentemente non possiamo parlare per conto del governo israeliano, e non sappiamo cosa vorranno effettivamente fare il prossimo anno. Possiamo però parlare di ciò che è stato fatto finora e cosa temiamo per il futuro. Ciò che Israele ha fatto sin dalla sua istituzione è stato di negare l’esistenza di uno Stato palestinese e di espandere il proprio territorio conquistando la nostra terra. Nel 1988, con la Dichiarazione di indipendenza della Palestina, l’Olp ha proclamato lo Stato di Palestina entro le frontiere del 1967 con Gerusalemme come capitale: questo è stato un compromesso storico che accettava de facto la creazione di uno Stato palestinese sul 22 per cento del proprio territorio storico. Pur tuttavia, ciò non era abbastanza per soddisfare le ambizioni israeliane.

Perché dice questo? Poi cosa è successo?

Da allora Israele ha proseguito nell’espandere i propri insediamenti illegali fino a raggiungere il numero di circa 620mila coloni. Le più recenti dichiarazioni relative all’annessione degli insediamenti sono coerenti con il programma perseguito finora da Netanyahu, e sono state precedute da altre analoghe promesse fatte alla popolazione israeliana per guadagnare consenso elettorale. Noi palestinesi continuiamo a confidare nella legge internazionale che definisce gli insediamenti israeliani come un esito illegale dell’occupazione, ma siamo anche consapevoli del fatto che i governi israeliani hanno finora agito in modo tale da creare situazioni sul terreno che la comunità internazionale non è stata in grado di contrastare. È ora giunto il momento di reagire.

Un momento che può passare anche dall’Italia?

Apprezziamo molto le dichiarazioni e la presa di posizione del vice ministro italiano per gli Affari esteri, Marina Sereni, così come la recente dichiarazione dei patriarchi e capi delle chiese in Terra Santa, ambedue contrarie a piani unilaterali di annessione.

La viceministro Sereni, a gennaio, aveva anche parlato del piano annunciato da Donald Trump per porre fine al conflitto: diceva che “deve essere valutato con attenzione. È necessario favorire la ripresa del processo politico e del negoziato tra palestinesi e israeliani sulla base del principio ‘due stati per due popoli’ e con Gerusalemme capitale condivisa”. Che ruolo avrà sulle dinamiche israelo-palestinesi future l’azione politica di Trump?

La Palestina ha rifiutato sin dall’inizio il piano di Trump. Non fa altro che sostenere i progetti israeliani di annessione. La Palestina non può vendere Gerusalemme Est e il West Bank in cambio di denaro o altro. L’impatto del piano sulle relazioni israelo- palestinesi si può riassumere così: gli Stati Uniti non rappresentano più un mediatore credibile nel nostro conflitto perché sostengono chiaramente una parte, che è una parte illegale. Così facendo Trump non agisce solo contro il popolo palestinese, ma anche contro tutte le disposizioni di legge internazionali e delle Nazioni Unite.

Giorni fa, in un discorso durante un webinar del Jewish Democratic Council of America, Tony Blinken – advisor per la politica estera del candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden ha parlato di Israele e Palestina: ha specificato che “molto potrebbe cambiare” a proposito delle questioni legate alle annessioni, ma ha anche insistito sul fatto che “non avrebbe senso, sotto il profilo pratico o politico” spostare l’ambasciata statunitense da Gerusalemme. Cosa potrebbe accadere se dovesse vincere Biden?

Di nuovo, l’ambasciatore della Palestina non può certo prevedere chi vincerà le elezioni negli Usa, né cosa il vincitore farà. Tuttavia, insistiamo sul fatto che la questione di Gerusalemme Est è per noi vitale e molto ben definita dalla legge internazionale. Pertanto, la presenza dell’ambasciata americana a Gerusalemme ha una forte valenza politica e conseguenze molto concrete, come si può notare analizzando l’interruzione delle nostre relazioni con gli Usa a partire dall’apertura della nuova ambasciata, e l’impatto che la decisione dell’amministrazione Trump ha avuto sulla nostra popolazione, a cominciare dalla Grande Marcia del Ritorno che ebbe inizio alla vigilia di quel trasferimento (il 30 marzo 2018, ndr).

Poi c’è stata anche una dichiarazione più tiepida, alla Jewish Telegraphic Agency, giusto?

Riguardo a Biden, nell’esprimere la nostra preoccupazione a proposito dei pareri che ha reso pubblici in merito all’ambasciata, accogliamo favorevolmente la dichiarazione rilasciata martedì 5 maggio, laddove ha detto che, se eletto, “riaprirà il consolato Usa a Gerusalemme Est, troverà una via per riaprire la missione diplomatica dell’Olp a Washington, e riprenderà i decennali impegni economici e di assistenza alla sicurezza nei confronti dei palestinesi che l’amministrazione Trump ha interrotto”.

Biden ha parlato anche di Israele in quell’occasione, tema sempre particolare per la politica americana…

Nel corso della stessa intervista, Biden ha replicato ai piani israeliani di annessione dichiarando che “gli Stati Uniti dovrebbero spingere Israele a non intraprendere azioni che possano compromettere una soluzione a due stati”. Aveva espresso la medesima opinione lo scorso mese di agosto parlando al Council on Foreign Relations (un think tank molto influente di New York, ndr), quando aveva dichiarato in termini ancor più chiari che “i leader israeliani dovrebbero fermare l’espansione degli insediamenti nel West bank, e smettere di parlare di annessioni che renderebbero impossibile il perseguimento della soluzione a due Stati”.

Il ritorno al dialogo e il ruolo dell’Italia. Parla l’ambasciatrice palestinese a Roma

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