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Nel momento in cui il governo Conte 2 è impegnato a rilanciare lo sviluppo dell’Italia meridionale sia con provvedimenti inseriti nella Legge di bilancio e sia con l’ormai imminente a messa a punto di un Piano per il Sud – alimentando in tal modo grandi attese, ma anche vivaci polemiche sulla sua reale consistenza – irrompono nel dibattito meridionalistico due volumi che possono a buona ragione definirsi controcorrente, perché mirano a scardinare un habitus mentale ancora prevalente che vede le regioni del Sud sempre in attesa di interventi dello Stato finalizzati a ridurne le distanze dal Settentrione, senza però sostanziali autocritiche di propri errori e manchevolezze.

Ma questi due libri non sono stati affatto redatti, come pure si potrebbe supporre per i loro contenuti, da arcigni censori settentrionali delle rivendicazioni di un Meridionalismo “storico” tuttora in servizio permanente effettivo, ma ormai da molti osservatori considerato d’antan, ma dall’autorevole direttore (di origini napoletane) di un diffusissimo quotidiano del Mezzogiorno come il Nuovo Quotidiano di Puglia, e da un nutrito gruppo di trenta studiosi anch’essi meridionali che hanno focalizzato con rigore analitico e senza indulgenze autoassolutorie un ampio spettro di problematiche economiche, sociali, culturali e infrastrutturali che caratterizzano le regioni del Sud.

Ci riferiamo ad uno splendido saggio di grande densità argomentativa e incisività propositiva del direttore Claudio Scamardella, dal titolo “Le colpe del Sud” pubblicato da Manni editore di Lecce, e al volume collettaneo “Mezzogiorno in progress? Non siamo meridionalisti”, promosso dall’Osservatorio Banche-Imprese di Bari, e coordinato dal suo direttore Antonio Corvino, appena mandato in libreria dalla Rubbettino, che da anni ormai si è affermata nel panorama nazionale per le sue pregevoli pubblicazioni saggistiche.

Ad onta del titolo dei due libri, in realtà non siamo in presenza di pamphlet o di instant book, destinati come tali ad essere bruciati rapidamente nell’ormai vorticoso susseguirsi quotidiano di interventi, polemiche, recriminazioni, accuse o autodifese di protagonisti e antagonisti della scena politica nazionale e locale – sempre più spesso impegnati a comunicare solo su facebook o con raffiche di tweet – ma di testi molto ampi che, nel caso di quello collettaneo dell’Osservatorio Banche-Imprese, è risultato persino superiore alle 500 pagine e nel quale si raccolgono saggi, come uno dello scrivente sulla grande industria nel Meridione, e interviste di notevole interesse a vari protagonisti dell’imprenditoria meridionale.

Due volumi, lo diciamo subito, scritti in piena autonomia dai loro estensori e senza alcuna reciproca consultazione ma che risultano, per ogni lettore che sia attento ai loro contenuti, accomunati nitidamente da un fil rouge così riassumibile: il Mezzogiorno potrà legittimamente continuare a rivendicare un forte e costante intervento dello Stato e dell’Unione Europea per la riduzione dei suoi divari rispetto alle loro aree più avanzate – un intervento pubblico che sia proseguito guardando però alle prospettive di crescita dell’intera economia nazionale – ma solo a condizione, secondo gli autori assolutamente imprescindibile, che le classi dirigenti dell’Italia meridionale, i suoi stakeholder, le forze della ricerca e della scienza e la parte più avvertita dell’opinione pubblica e della società civile si impegnino in uno sforzo corale e prolungato negli anni per superare irreversibilmente persistenti inefficienze amministrative, ritardi non più giustificabili nei governi della cosa pubblica, carenze gestionali ormai insostenibili ma ancora manifeste in tante esperienze aziendali, fenomeni corruttivi che hanno coinvolto anche esponenti della Magistratura, un ancora diffuso malcostume civico, e dissipazioni non più tollerabili di risorse pubbliche.

E a tale sforzo – che è bene saperlo non potrà essere certamente di breve momento, ma che dovrà essere di intensità crescente – sarà necessario accompagnare da parte delle stesse classi dirigenti del Sud la piena valorizzazione in logiche di mercato delle tante risorse naturali, paesaggistiche, storico-culturali, produttive e finanziarie di cui le regioni meridionali già da lungo tempo dispongono – e ampiamente analizzate per singoli settori nel volume dell’Osservatorio – e che non è più immaginabile che debbano restare inutilizzate, sottoutilizzate o male impiegate, o promosse soltanto dall’ingegno e dall’intraprendenza di chi venisse ad impiegarle dal Nord o dall’estero.

La società meridionale insomma, i suoi gruppi dirigenti e soprattutto i suoi ceti intellettuali, evitando come scrive Scamardella nel suo volume, il duplice pericolo, da un lato, della retorica delle eccellenze e dell’autoassoluzione dalle proprie mancanze e, dall’altro, di un fatalismo rassegnato sempre proteso in realtà a sollecitare risarcimenti statali, deve prendere con risolutezza nelle proprie mani il suo destino, sentendosi sino in fondo parte attiva con le risorse di cui dispone e i suoi valori di una grande comunità nazionale, collocata in uno scenario mediterraneo e mondiale che offre al nostro Paese immense opportunità, ma che ci trasmette anche, come stiamo verificando proprio in queste settimane, crescenti tensioni geopolitiche ed economiche.

Allora il Mezzogiorno delle modernità e della competizione – che non parte affatto da zero e che in realtà è già in progress, come scrivono coralmente gli autori delle ricerche coordinate da Antonio Corvino e Saverio Coppola – riscoprendo in termini non propagandistici la sua centralità euromediterranea (esaltata dal recente raddoppio del Canale di Suez) deve sempre di più porre le sue risorse e la sua crescita – da accelerarsi con tutti i mezzi già disponibili e le best practices attivabili o proseguibili sin da ora a livello locale – al servizio dello sviluppo non solo del Sud, ma dell’intera Italia. E pertanto anche le altre risorse comunitarie e nazionali che continueranno ad essere sollecitate ed ottenute per le politiche di coesione e che verranno elargite con il nuovo ciclo 2021-2027 della programmazione europea dovranno essere impiegate con assoluta oculatezza, senza sprechi ormai intollerabili, in tempi certi e soprattutto finalizzandole a progetti concreti per la riduzione dei divari territoriali e socioeconomici, invece che ad alimentare come spesso accade microclientelismi e sistemi locali di consenso elettorale.

Questi due libri, dunque, dovrebbero essere letti e meditati insieme nei loro contenuti: e così da oggi (finalmente) il dibattito meridionalistico potrebbe non essere più lo stesso di un passato durato anche troppo a lungo.

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