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Quindici leader pro-democrazia del Porto Profumato sono stati arrestati dalla polizia cinese: l’accusa è eversione per aver diretto e organizzato manifestazioni di protesta – quelle che dal marzo dello scorso anno, per diversi mesi, hanno magnetizzato l’agenda politica del Partito comunista cinese e l’attenzione del mondo. Milioni di cittadini hongkonghesi chiedono la de-cinesizzazione della provincia autonoma. Le proteste son state violente, le richieste profonde: al punto che, tralasciando gli aspetti tecnici, quei militanti vengono descritti ormai da tempo come “pro-democrazia”.

Utopico. La Cina ha un accordo – dopo la restituzione da parte di Londra – per separare il sistema del mainland da quello di Hong Kong. È quello noto come “un Paese due sistemi”, che dovrebbe garantire spazi di indipendenza all’ex colonia britannica, e che invece sta seguendo processi erosivi sempre più intensi.

Durante la crisi sanitaria, le autorità locali hanno cercato di preservare la linea filo-cinese che guida Hong Kong, cercando di sfruttare le buone misure di contenimento prese riguardo alla diffusione come leva per ottenere in cambio il consenso dei cittadini. Ma l’operazione è complicata.

Le proteste dello scorso anno non si sono interrotte nemmeno nei giorni più critici dell’emergenza: manifestazioni anti-Cina e pro-democrazia ci sono state sia a febbraio che a marzo. L’autorità centrale s’è vista limare autorevolezza in quella decina di mesi in cui singhiozzava davanti ai manifestanti e contemporaneamente accettava la repressione cinese – usata anche come tattica per inasprire i fronti e dipingere chi manifestava come un pericoloso eversivo.

Sia Hong Kong che Pechino hanno chiaro che la pandemia ha soltanto attenuato il ritmo delle proteste. E la rabbia repressa potrebbe esplodere quando l’ondata epidemica sarà passata. Anche a questo si legano gli arresti: il Partito ha intenzione di muoversi in anticipo.

Condanne sugli arresti sono arrivate da Regno Unito e Stati Uniti – per bocca del segretario di Stato, Mike Pompeo: “Gli arresti di attivisti per la democrazia a Hong Kong sono profondamente preoccupanti: l’applicazione della legge politicizzata è incompatibile con i valori universali di libertà di espressione, associazione e riunione pacifica”. Gli americani sono in pieno ingaggio contro la Cina – sentimento strategico su cui Donald Trump ha piantato la sua traiettoria, a conferma degli anni precedenti, e su cui anche il democratico Joe Biden ha indirizzato lo sguardo in previsione di un playbook più ampio.

“Gli arresti dei leader democratici a Hong Kong, come l’avvocato Martin Lee, sono inaccettabili, ancor più durante una lotta comune mondiale contro Covid-19 (il codice con cui viene identificata la sindrome mortale prodotta  dall’epidemia, ndr). Esortiamo la Cina a rilasciarli immediatamente e rispettare i diritti dei cittadini di Hong Kong”, ha twittato Paolo Grimoldi, vicepresidente della Commissione Esteri di Montecitorio e capo delegazione italiana all’Ocse. Una delle tante reazioni internazionali alla decisione aggressiva di Pechino: tra queste, notevole la lettera congiunta pubblicata da Liberal International, Frederich Naumann Foundation, Council for Asian Liberal Democracies e il gruppo politico europeo ALDE.

Tra le persone arrestate, oltre a Lee, fondatore ottantunenne del Partito Democratico hongkonghese, c’è anche il magnate editoriale Jimmy Lai, e l’ex legislatrice e avvocato Margaret Ng. Tutti sono chiamati a rispondere di “manifestazioni illegali”, reato che – secondo quanto dettato dalla Cina – durante le proteste dell’anno scorso ha avuto potenziamento penale grazie allo stato di emergenza. Compariranno davanti alla corte il 18 maggio in un quadro molto critico per loro, visto quanto il Partito cinese abbia cercato, e stia cercando, di penetrare il sistema giudiziario di Hong Kong – uno degli elementi centrali sul sistema di semi-autonomia.

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