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Possiamo dire con oggettività che Matteo Salvini esce sconfitto dal voto in Emilia-Romagna e Calabria?

Sì, possiamo.

E possiamo dire che questo dipende dai risultati raccolti dai candidati da lui sostenuti, in particolare dalla (fragile) Borgonzoni nella sfida più a nord?

Molto meno in verità, perché tutto sommato le forze politiche di destra escono più forti di prima da questo voto, sia dove vincono che dove perdono.

E allora perché ha senso dire che Salvini è lo sconfitto di questa tornata elettorale?

Ha senso dirlo per due ragioni assai diverse da quelle più “gettonate”, che ora proviamo a descrivere.

In primo luogo Salvini perde perché a vincere in Calabria è Jole Santelli, figlia purissima di Forza Italia “prima maniera”.

Le destre quindi guadagnano un governatore che però appartiene ad una era geologica diversa da quella del leader della Lega, quindi lui è costretto a prendere atto che la mutazione genetica che ha cercato di imporre in questi ultimi anni (cioè la cancellazione di tutto quanto non a lui “contemporaneo” e  in particolare il soffocamento progressivo di Forza Italia) subisce una battuta d’arresto, finendo per dover accettare non un governatore come Toti (perfettamente compatibile con la Lega attuale, come vedremo presto nella campagna elettorale ligure) ma addirittura una esponente della vecchia guardia berlusconiana, capace di arginare significativamente anche i consensi di lista dal partito del Capitano.

Certo, le destre guadagnano una vittoria importante a sud, ma a discapito della leadership assoluta ed incontrastabile del medesimo Salvini, che oggi vede articolarsi sempre più la fisionomia della sua coalizione (e lo stesso accadrà in primavera se sarà Fitto il candidato in Puglia).

Poi c’è un tema per molti versi ancor più decisivo: cioè l’uscita di scena delle elezioni anticipate (almeno nel breve periodo).

Salvini cioè vede sfumare la sua “campagna” di primavera, che si sarebbe certamente concentrata sul tema del governo “sfiduciato” dalle urne regionali.

Quindi dovrà cambiare registro, concentrandosi su una snervante battaglia di logoramento verso un governo e un Parlamento che non hanno alcuna intenzione di sloggiare.

I tempi dunque si allungano e tutte le vicende finiscono per intrecciarsi.

Eventuale processo allo stesso Salvini per nave Gregoretti, riforma della legge elettorale, riduzione del numero dei parlamentari con annesso referendum il 29 marzo, voto in sei regioni in tarda primavera, congresso del Pd, stati generali del M5S: tutto si andrà mescolando nel corso dell’anno, senza però concedere al condottiero leghista il centro del ring.

Certo, lui resta il soggetto più forte.

Ma in senso relativo e non assoluto, così come rilevano tutti i sondaggi nazionali.

E la differenza non è poca.

È quindi un bilancio tutto negativo per Salvini quello del voto di domenica?

Sì, ad una lettura superficiale.

In realtà la sua sconfitta (politica più che nei numeri) è una buona notizia per il sistema e, tutto sommato, neanche tanto disastrosa per lui medesimo.

È una buon notizia per il sistema perché ci risparmia uno scontro feroce sulla data delle elezioni, che avrebbe trascinato tutti (Quirinale compreso) in un vortice polemico al color bianco che evitiamo assai volentieri.

Ed è in qualche modo accettabile anche per Salvini, che farebbe bene a lavorare con più impegno sulla sua coalizione.

Essa infatti, oggi come oggi, non è affatto in grado di prendere la guida del governo.

Non dispone della coesione necessaria, non ha quel minimo di rete nei luoghi che contano della Repubblica e non ha nemmeno seri sostegni di carattere internazionale.

Tutte materie che richiedono almeno un paio di anni di duro lavoro.

Salvini ha perso ed è meglio così (anche per lui)

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