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Per come stanno le cose oggi (giovedì 16 gennaio, la data è importante perché tutto evolve in fretta) la conferenza di Berlino sulla Libia programmata per domenica ha tutti i presupposti per aprire a una tregua stabile — ma non è per niente detto che sia anche duratura — e sostituire quello che sarebbe dovuto succedere lunedì a Mosca. Il miliziano ribelle della Cirenaica, Khalifa Haftar, che ha usato il palcoscenico moscovita per un coup de théâtre, lasciando gli incontri senza firmare lo stop alle armi, adesso ha attorno a sé una morsa stretta.

Nella capitale tedesca ci sarà Vladimir Putin, piuttosto indispettito dall’abbandono haftariano, lui che intendeva costruire sulla Libia un altro esempio di come le operazioni ibride – l’invio di contractor collegati al Cremlino a combattere per il fronte dell’Est, sempre smentito ufficialmente – fossero un suo marchio di fabbrica di successo. E poi ci sarà anche Mike Pompeo, il segretario di Stato americano che nei mesi scorsi aveva spostato il suo dipartimento su una linea più assertiva riguardo al dossier libico – nello stile trumpiano con cui gli Usa hanno approcciato la Libia di recente, ossia la gestione da remoto.

Pompeo e Putin sono due elementi di peso non tanto perché hanno ruoli forti in Libia – il primo cerca di starne fuori, il secondo vorrebbe capitalizzare il massimo col minimo sforzo anche perché nel suo Paese sono tanti che chiedono anche a lui di non entrarci. I due però hanno rapporti con gli alleati più agguerriti dell’uomo forte della Cirenaica, Egitto ed Emirati Arabi, e anche ottime relazioni con lo sponsor principale della riscossa armata di Tripoli, la Turchia.

Haftar è tecnicamente alle strette perché, invitato a Berlino dalla cancelliera Angela Merkel, non può permettersi di far finire in un fiasco un incontro-quadro così partecipato (saranno presenti infatti anche il presidente tunisino Kais Saied, il premier italiano Giuseppe Conte, e delegazioni francesi, inglesi, turche, egiziane, emiratine, algerine, fino al segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres (che di recente Haftar ha trattato senza troppi scrupoli, quando ha deciso di lanciare l’assalto a Tripoli mentre il numero uno dell’Onu era in visita in città).

Soprattutto, più di Haftar a rimetterci da colpi di scena senza soluzioni potrebbero essere i suoi sponsor. E se da parte della Russia c’è un giustificativo, un ‘ci abbiamo provato’, Emirati ed Egitto, due paesi in cerca continua di accreditamento internazionale sul lato dei buoni, avrebbero pochi spazi di manovra.

Quello che succederà poi è tutto da vedere. Haftar non può rappresentare il futuro libico anche perché è piuttosto anziano, non in perfetta forma, e non dispone di una linea di successione concreta. Serraj è ancora in piedi soltanto perché la crisi peggiora senza respiri lunghi e pause efficaci, ma sembra aver esaurito le possibilità di allargare lo scarso consenso interno.

Perché la conferenza di Berlino mette alle strette Haftar

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