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A vent’anni di distanza dalla presa del potere da parte di Putin, è possibile identificare nella sua politica estera uno dei motivi della sua longeva popolarità in Russia. Infatti, l’opinione pubblica post-sovietica aveva subìto una serie di traumi, fra cui il peggioramento delle condizioni di vita e la percezione di un dilagante disordine nei territori dell’ex-Urss. Tutto questo era poi associato alla sensazione che l’avere perso del tutto il proprio status nel panorama internazionale fosse corresponsabile della situazione di profondissimo disagio. Un’atmosfera sicuramente enfatizzata da Putin, per trasformarla in uno dei suoi cavalli di battaglia politica.

Questa importanza della politica estera si è espressa soprattutto nel rapporto fra Stati Uniti e Russia durante la sua permanenza al Cremlino, all’inizio della quale la situazione era del tutto asimmetrica e sbilanciata a favore degli Usa. In questa Russia ereditata da Boris Eltsin, Putin dovette inoltre, come prima mossa, porre rimedio anche alle sconfitte di quest’ultimo, come la clamorosa débâcle dell’Armata rossa in Cecenia. Da quel momento in poi, Putin ha sempre cercato di lavorare per trovare una linea d’intesa con gli Stati Uniti, mentre al contempo tentava di rimettere in sesto l’apparato militare ex-sovietico.

Inoltre, tutto quello che poteva rappresentare un punto di tensione venne spazzato via dagli eventi dell’11 settembre. A seguito di un tale evento, Putin cercò, e ottenne, un’intesa molto forte con l’allora presidente George W. Bush sposandone, e in parte manipolandone, la logica e l’ideologia della lotta al terrorismo. Ciò si tradusse nell’applicare la qualifica di terrorista a chiunque egli ritenesse opportuno, come del resto venne fatto da molti altri.

La situazione si modificò però nuovamente dopo il biennio 2013-2014, in occasione di due avvenimenti-chiave: il primo, il forte ingresso russo nella crisi siriana, che iniziò proprio con un ammonimento agli Stati Uniti di Obama delle possibili conseguenze qualora l’alleato-cliente, il regime di Assad, fosse stato attaccato; il secondo, l’invasione della Crimea e la guerra in Ucraina. Quest’ultimo conflitto, in particolare, ha completamente ridefinito i rapporti fra Russia e Usa, portandoli a uno stato di grande tensione – fatto salvo l’ultimo periodo trumpiano, all’insegna della confusione.

Ciò che però colpisce di Putin è la sua abilità nel essersi saputo relazionare, in modo a lui vantaggioso, con tutte le amministrazioni statunitensi che si sono succedute da vent’anni a questa parte. È riuscito in questo per tutta una serie di fattori, ma soprattutto grazie all’abilità di comprendere l’interlocutore. In altre parole, egli fu, ed è, abile nel capire che ogni amministrazione ha una certa costanza nel perseguimento degli interessi nazionali americani, ma anche come ciascuna avesse una propria visione e si confrontasse con delle sfide differenti.

La politica di Bush jr. era, ad esempio, estremamente reattiva a causa del disastro dell’11 settembre, con tutte le sue conseguenze. Obama, al contrario, ha tentato di spostare l’interesse degli Usa sul Pacifico e non solo sull’Atlantico, una strategia che comunque era nell’interesse russo agevolare. Ancora più nell’interesse russo risulta, però, essere l’attuale visione di Trump, con il suo disengagement dal Medio Oriente e la sua derubricazione degli alleati della Nato a partner in arretrato nei pagamenti della quota d’iscrizione.

Putin, dunque, anche a fronte di problematiche come la crisi ucraina, ha sempre giocato le proprie carte con abilità, capendo dove si muovevano i suoi interlocutori e quale fosse la loro visione. Il presidente russo è quindi sicuramente un buon tattico, che ha a sua volta una propria visione della Russia. Il vero problema, però, è se ha anche piena consapevolezza delle risorse, tutto sommato scarse, del Paese – al di là di quelle naturali ovviamente. Gran parte del successo attuale della Russia, che è de facto una potenza declinante, deriva dunque dalla continuità della figura di Putin, che però è anche un limite del Paese, che non riesce a esprimere un’alternativa al proprio presidente.

È difficile dire quali sviluppi potrebbero avere luogo qualora Putin non ricoprisse più un ruolo di potere nel breve o medio periodo, soprattutto perché non si sa come agirà Putin stesso. Certo, potrebbe inventarsi una nuova riforma costituzionale che lo mantenga al potere, ma l’opinione pubblica non reagirebbe più così compattamente a favore come in passato. Potrebbe ricorrere nuovamente a Medvedev o a qualche altra figura da candidare, per poi ricandidarsi a sua volta. In assenza di Putin, è tuttavia probabile che il rapporto fra Stati Uniti e Russia possa tornare a essere pesantemente sbilanciato a favore dei primi. A meno che i russi non decidano di avvicinarsi molto di più a Pechino.

I presupposti ci sono; ad esempio se guardiamo ai sei corridoi della Belt and road initiative (Bri) praticamente la metà passano per territori russi, di repubbliche amiche della Russia o dalle acque dell’artico russo. È certo, però, che questo sarebbe un boccone amaro da ingoiare per i russi.

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Di Vittorio Emanuele Parsi

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