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Non è la prima, non sarà l’ultima volta. La politicizzazione del calcio è antica. La sua raccapricciante dilatazione la vedemmo quarant’anni fa quando in Argentina si disputò il Mundial mentre i militari del generale Jorge Rafael Videla facevano sparire uomini, donne e bambini per non turbare il sonno profondo in cui era immerso un Paese che non si ridestava neppure quando molti dei desaparecidos venivano gettati dagli aerei militari nell’Oceano o nella pampa, magari durante una partita.

In Messico più che il trionfo di Maradona nel 1986 si celebrò la vendetta di quella stessa Argentina, che otto anni prima aveva vinto il suo primo titolo, contro l’Inghilterra vittoriosa nella sporca guerra delle Falkland (che io continuerò a chiamare Malvinas) dove morirono ragazzi per un fazzoletto di terra di fronte alle loro scogliere senza sapere perché. La mano de Dios fu implacabile all’Azteca ed El Pibe de oro fece dimenticare per un istante le infamie del tiranno che aveva lordato il volto dell’Argentina.
Le guerre balcaniche pochi anni dopo gettarono lo scompiglio nella vecchia e logora Jugoslavia. La Serbia bombardata dai guerrafondai occidentali che per umanità, soltanto per umanità – così ci fecero intendere, ma noi l’intendemmo in tutt’altro modo – , scaricarono tonnellate di ordigni su gente indifesa che soltanto negli stadi poteva rivendicare ancora orgogliosamente la propria identità, mentre le madri bosniache di Srebrenica piangevano tutte le loro lacrime eppure a Sarajevo davanti ad una radiolina si coglievano gli ultimi insulti delle tifoserie che si sarebbero dissolte da lì a poco.

Nazioni senza calcio. Stadi come arene gremite di gladiatori. Poco prima della partita poteva accadere che i giocatori dovessero cambiare squadra o nazionalità (e casacche) per gli spostamenti repentini dei club che improvvisamente noni erano più croati o sloveni o serbi o bosniaci o macedoni o montenegrini. Ryszard Kapuscinski, uno dei più grandi inviati di ogni tempo, scrisse un libro, “La prima guerra del football e altre guerre di poveri”, nel quale raccontò il conflitto combattuto nel 1969 tra Honduras e Salvador, noto come “Guerra del calcio” o “Guerra delle cento ore” poiché si svolse in concomitanza con gli incontri validi per la qualificazione ai Mondiali di calcio del 1970 in Messico tra l’Honduras ed il Salvador, appunto. Popoli in guerra, sullo sfondo di lotte per il potere: il calcio era parte di questa guerra atipica e sullo sfondo sparivano i giocatori, figure sbiadite ed inessenziali, mentre si stagliavano le figure di tiranni che usavano palloni come ordigni micidiali. In Afghanistan, in anni non lontani, negli stadi si celebravano dopo gli incontri, lapidazioni di donne, fucilazioni di dissidenti, agghiaccianti spettacoli di torture e magari si faceva battere un rigore ad un calciatore piazzandogli davanti al piede un pallone di pietra.

In Iran abbiamo assistito a vere e proprie selvaggerie ai danni di donne e di squadre invise al regime. Dobbiamo stupirci se il Clasico Barcellona-Real Madrid non si giocherà sabato 26 ottobre come da calendario? La via calcistica alla politica è arrivata nella civile Europa. Talmente civile che è sempre più frammentata. Piccola di statura e meschina di ambizioni. Che cosa dovrebbe essere uno staterello affacciato sul Mediterraneo? Quello che sta accadendo in Spagna è incomprensibile. La Catalogna si sta trasformando in un campo di battaglia. Non ricorda più le sue origini. I più giovani ed i più agguerriti neppure hanno consapevolezza che essa è parte di una storia che porta il nome di Hispanidad. E al di là del verdetto che condanna i promotori di una tale sciagurata avventura secessionista, non resta che trasferire la contesa al Camp Nou non certo con la stessa intensità ed alla stessa maniera delle guerre del football che abbiamo ricordato.

La partita, dunque, è stata ufficialmente rinviata a causa delle tensioni scaturite dopo la sentenza emessa nei giorni scorsi nei confronti dei leader separatisti catalani. La protesta violenta nella città catalana, il clima di grande tensione, la necessità di garantire la disputa dell’evento in una situazione ambientale più sicura (tenuto conto del numero degli spettatori e delle necessità organizzative) hanno spinto la Federazione a cancellare uno degli appuntamenti più attesi nel calendario della Liga e del panorama calcistico europeo, si dice. E invece non avrebbe dovuto farlo. È un segno di debolezza. Adesso sta ai due club stabilire una data possibile, forse il 18 dicembre. Con grande soddisfazione del Barcellona che aveva fatto sapere al direttivo della Liga che non avrebbe accettato l’ipotesi di un’inversione di campo. Ci sarebbero gli estremi per sanzionare il Barcellona, ma nessuno se la sente di prendere decisioni così drastiche.

È più facile rimuovere dalla tomba nella quale risposa dal 1975, nel Sacrario della Valle de los Caidos, la salma di Francisco Franco, che disinnescare una pretesa calcistica che rivela un atteggiamento bellicoso contro la Spagna intera. E se stabilire una nuova data non crea problemi al governo di Madrid, decidere in quale bandiera il feretro del Generalissimo deve essere avvolto per le nuove esequie sembra che stia gettando nello sconforto gli illuminati governanti. Grottesco il tutto. Come grottesco è il saluto militare che i giocatori turchi hanno esibito nelle ultime gare di qualificazione degli europei, così, tanto per sottolineare che stanno con il Sultano che massacra i curdi. E se a qualcuno ai piani alti della Uefa venisse in mente di spostare dallo Stadio Ataturk di Istanbul a chissà dove la finale di Champions League, in programma il prossimo 30 maggio, che cosa direbbe l’ultimo ridicolo ottomano?

Un’idea ce l’avremmo. Sarebbe bello vedere le due squadre più forti d’Europa disputarsi il titolo nello stadio Hrazdan di Yerevan, capitale dell’Armenia la cui popolazione fu ingiustamente aggredita dai turchi 1915 ed il 1916. Senza pietà un milione e mezzo di abitanti vennero passati per le armi senza sapere perché. E non era in programma neppure una partita di calcio tra le due nazionali che neppure sapevano che cosa fosse il football. Si disputi a Yerevan la finale di Champions League. E si facciano volare quel giorno un milione e mezzo di allodole…

Dalla Catalogna a Istanbul. La guerra del football raccontata da Malgieri

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