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Deputati che lasciano il Movimento Cinque Stelle per andare verso la Lega o verso il Gruppo misto, ex ministri che escono con l’idea di fondarne uno proprio di gruppo, un senatore che viene espulso e altre “epurazioni” che si preparano. E nonostante questo, il capo politico Luigi Di Maio ostenta tranquillità.

Anzi, sembra proprio sereno e “riposato”, come lui stesso ha detto a capodanno. Certo, sarà perché questa volta egli sembra si stia muovendo in perfetta sintonia con Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Ma forse c’è anche un motivo più vero. Il Movimento si sta non solo istituzionalizzando, ma anche partitizzando. E, come nei vecchi partiti, tutti (anche quelli liberali e democratici) fondati sul modello leninista del “centralismo democratico”, si discute, si dissente anche ma poi, decisa la linea politica, si agisce compatti come un sol uomo. In una parola, si tende ad avere proprio quella cosa che i Cinque Stelle si vantavano di non avere: una identità.

“Il Movimento è pluralità ma non anarchia, finito con Paragone ora nei prossimi giorni toccherà a chi non restituisce. Via le zavorre, potremo tornare a votare”: così ha efficacemente sintetizzato Di Maio. Dove si collocherà un partito vero e proprio, che come movimento si definiva “trasversale”? Non è difficile capirlo: al centro, come la vecchia Democrazia Cristiana, anche se difficilmente esso potrà aspirare ad avere quella forza e quella centralità che un tempo aveva il partito cattolico in Italia.

Di Maio, appoggiato dal socio fondatore e dal garante, vuole continuare ad esserne il capo politico, anzi il segretario come si diceva un tempo, o il leader, come più apropriatamente si dice ora. È chiaro che, in questa operazione, gli esponenti legati alla fase originaria, “anarchica”, romantica e movimentista del partito siano “una zavorra”, e che quindi vadano espulsi o al limite tollerati a ricordo dei tempi che furono (è il caso di Alessandro Di Battista, che fra l’altro sarà presto di nuovo in viaggio e non ostacolerà più di tanto il percorso intrapreso).

È evidente che in questo schema resta fuori Giuseppe Conte, che pure ha detto di voler continuare a fare politica. Il presidente del Consglio, che dopo tutto, memore di esperienze negative del passato (vedi Mario Monti), non è entusiasta dell’idea di creare un suo partitino, probabilmente, dopo aver incassato i complimenti inusualmente forti di Nicola Zingaretti, si accaserà nel Pd.

I Cinque Stelle, come la vecchia DC, punteranno a fare per lo più governi di centrosinistra, ma forse praticheranno anche la politica dei “due forni”. Soprattutto se la destra a trazione salviniana si modererà, da sola e anche per l’azione delle forze residuali di Forza Italia nonché, chissà, di Italia viva. Sarà un caso, ma oggi Renato Brunetta, dalle pagine de Il riformista, lancia proprio la seduzione di un grande partito che vada da Renzi a Salvini.

Tutto torna? Sì e no. No perché in questi schemi non si fa i conti con gli elettori, che a quanto sembra non hanno affatto messo a riposare le loro pulsioni antipolitiche, che nascono da disagio vero e profondo anche se finora ben incanalato dalla struttura comunitaria che in Italia ancora regge. Si ritornerebbe certo a un tranquillzzante schema classico Destra-Sinistra-Centro, abbandonando gli esperimenti di post-politica, ma non si potrebbe essere certi che sia questo l’assestamento di potere che gli italiani chiedevano. Sa troppo di ritorno al passato.

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