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Lo scorso 18 dicembre tutti i media nazionali hanno dato, giustamente, ampio risalto al lancio del quinto satellite Cosmo-Skymed, gioiello dell’industria spaziale italiana. Ma questo grande risultato ha origini lontane. Il 15 dicembre 1964, l’Università La Sapienza di Roma lanciò dalla base Nasa di Wallops Islands il primo satellite della serie San Marco, progettato e realizzato in Italia. Da quel momento, partì l’avventura del nostro Paese nello Spazio: un percorso che contribuisce ancora oggi a confermare l’Italia nel novero delle nazioni industrializzate.

I primi satelliti artificiali furono il russo Sputnik nel 1957 e l’americano Explorer l’anno dopo, poi nel 1962 fu la volta dei britannici e dei canadesi con i satelliti Ariel e Alouette, la cui realizzazione però fu significativamente supportata dall’industria statunitense. Ecco perché il San Marco è meritatamente sul terzo posto del podio. Nei primi anni 60 infatti, il professor Luigi Broglio, con il suo team della Sapienza, progettò e costruì il San Marco negli uffici di via Eudossiana e di via Salaria a Roma, e in quest’ultima sede sono tuttora visitabili gli impianti di prova recentemente ristrutturati. Il satellite era un cilindro di 115 Kg in alluminio dal diametro di 70 cm. Era dotato di antenne, elettronica, protezione termica e alloggiava due payload scientifici: uno, ideato dallo stesso Broglio, per misurare la densità atmosferica, l’altro (del professor Nello Carrara del centro studi microonde di Firenze) per studiare l’interferenza delle onde radio nello strato ionosferico.

Il successo del San Marco 1 fu il risultato di anni politicamente intensi per Broglio e per l’Italia. Negli anni 50, i primi satelliti artificiali furono sviluppati sia per ragioni militari che scientifiche, in particolare per esplorare l’alta atmosfera. Anche la comunità accademica italiana, attraverso il Cnr, intraprese questa strada sotto la guida del fisico Edoardo Amaldi, il quale in grande sintonia con l’autorevole collega francese Pierre Auger puntava a un’istituzione europea comune per l’esplorazione dello Spazio. L’iniziativa degli scienziati fu supportata dall’Aeronautica militare italiana, interessata agli studi sui razzi, che annoverava tra i suoi più brillanti ufficiali l’ingegnere aeronautico Luigi Broglio il quale aveva creato nel 1956 il Centro ricerche aerospaziali (Cra). Nel 1959, presso il Cnr fu istituita la Commissione per le Ricerche Spaziali (Crs) affidata a Broglio. Questi, nel 1961, propose l’ambizioso progetto San Marco per lanciare satelliti scientifici costruiti in Italia da una piattaforma offshore equatoriale.

Consapevole che l’Italia non poteva permettersi autarchicamente un tale programma, Broglio sostenne la cooperazione con gli Stati Uniti e con l’appoggio del governo di Amintore Fanfani nel 1962 fu siglato un protocollo d’intesa tra il Cnr, il Crs e la Nasa, affinché i futuri satelliti italiani fossero lanciati da razzi Scout americani. Il protocollo divenne poi una partnership ufficiale tra governi con la firma a Roma tra il ministro degli Esteri Attilio Piccioni e il vice presidente Usa Lyndon Johnson, e il conseguente stanziamento italiano di 4,5 miliardi di lire in tre anni con una legge speciale. Questo permise ai nostri ingegneri e tecnici di perfezionare le proprie conoscenze negli Stati Uniti nei diversi centri, tra cui il Goddard Space Flight Center e il Wallops Flight Facility. E sempre in quegli anni, Broglio realizzò la piattaforma di lancio al largo di Malindi nel Kenya, utilizzando una vecchia piattaforma petrolifera dell’Eni e una nave logistica donata dagli Usa per la telemetria e il controllo.

La base divenne operativa nel 1967 e lanciò, sempre con razzi Scout, satelliti italiani, inglesi e americani sino al 1988. Per coloro che, come chi scrive, hanno vissuto quegli anni da studente alla “Sapienza” parlando direttamente con Broglio e con gli altri professori che lo avevano accompagnato in quell’avventura (ad esempio il professor Carlo Buongiorno, poi diventato il primo direttore generale dell’Agenzia spaziale italiana) i racconti di quel progetto avevano i contorni di un’esperienza bellissima di avanzamento scientifico e tecnologico da prendere a modello. Ma una rilettura odierna di quel periodo ci consente anche di avere una migliore consapevolezza politica dell’Italia spaziale attuale.

È indubbio che l’allora governo italiano appoggiò ufficialmente l’iniziativa di Broglio perché comprese che la posta in gioco non era solo favorire il progresso tecnologico e scientifico della nazione, ma anche rafforzare quanto possibile il comparto spaziale per affrontare al meglio il posizionamento in Europa e nel mondo. Questa fu, e a mio avviso lo è tuttora, la grande lezione di Broglio: una forte e leale cooperazione con gli Usa permise a ingegneri e tecnici di maturare e progredire, e di potersi quindi poi sedere ai tavoli europei coi partner francesi o tedeschi per meglio negoziare la partecipazione a progetti comunitari.

Fu proprio negli anni del San Marco che crebbe negli italiani la consapevolezza che si sarebbe potuto realizzare in Italia un piccolo razzo vettore per poter lanciare i propri satelliti senza dipendere da altre nazioni, e ciò portò sul finire degli anni 90 al programma Vega dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che senza la spinta davvero propulsiva del professor Buongiorno non avrebbe forse mai visto la luce. Quando fu costituita l’Esa nel 1974, il progetto di Broglio viveva già da alcuni anni una sua crisi d’identità. L’Italia non poteva permettersi di aderire all’Esa – il cui obiettivo principale era, oltre alle missioni scientifiche, lo sviluppo del lanciatore Ariane – e mantenere nel contempo il San Marco. Il Crs aveva lasciato il campo alla Compagnia industriale aerospaziale (Cia) con il primo nucleo di aziende che sarebbe diventato poi l’Alenia Spazio, e che doveva costruire il Sirio, il primo satellite italiano geostazionario di telecomunicazioni. Così l’industria nazionale provava ad affermarsi nel panorama europeo e internazionale.

Anche Sirio però, così come i suoi successori ItalSat F1 e F2, non trovò spazio in Europa e rimase un programma nazionale. Riandando quindi alle due visioni tecnopolitiche dell’Esplorazione spaziale degli anni del dopoguerra – quella europeista di Amaldi e quella filo-americana di Broglio – fu di fatto la prima a concretizzarsi e nei fatti consentì l’avanzamento e l’integrazione industriale e accademica del nostro Paese nell’ambito comunitario. Con tutti i pregi e i difetti che oggi si possono rilevare. Ma la grande e attuale lezione del professor Broglio è che senza una forte visione dell’interesse nazionale – sia esso industriale, tecnologico o scientifico – non si ottiene riconoscimento o posizionamento internazionale. E una grande nazione spaziale come l’Italia dovrebbe sostenere la propria strategia massimizzando lo sviluppo di competenze sia in ambito europeo e sia in quello internazionale, cioè statunitense, con un sapiente equilibrio che proprio la storia di Luigi Broglio ci indica ancora oggi.

Luigi Broglio e l’Italia nello Spazio. Una lezione ancora attuale

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