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È l’irrisolto dilemma dell’uovo e della gallina. È la vittoria dei “leave” nel referendum sulla Brexit che spiana la strada all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti? O è la candidatura di Trump alla presidenza, e il suo sostegno militante alla Brexit, che innesca l’esito del referendum? Ed ora, è il voto per Trump degli operai del manifatturiero di Michigan, Ohio e Pennsylvania che ispira gli operai dell’Inghilterra per Nord a votare per Boris Johnson? O sono gli operai dell’Inghilterra del Nord che anticipano il bis di Trump nelle presidenziali Usa prossime venture?

Personaggi – Trump e Johnson, ma pure i loro cloni intermedi, il presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro o, in dimensione domestica, Matteo Salvini – e fenomeni – il voto di sinistra che trasmigra a destra – del nostro tempo, intersecati gli uni agli altri, ma non necessariamente dipendenti gli uni dagli altri.

In fondo, gli operai del Michigan e quelli dell’Inghilterra del Nord sono vittime e nel contempo complici di quella globalizzazione cui gli uni e gli altri credono di opporsi ascoltando demagoghi –  oggi si chiamano populisti – che coltivano le loro paure, con la fobia dell’altro, cioè degli immigrati, e propongono vecchie e logore ricette economiche, cioè il protezionismo.

Ma certo la lezione del voto britannico potrà essere utile ai democratici negli Stati Uniti: i laburisti di Jeremy Corbyn hanno perso (e in modo rovinoso) perché avevano un leader indeciso a tutto – contro un avversario sempre deciso, anche quando fa la cosa sbagliata, proprio come Trump -. E perché sulla Brexit sono stati prima ondivaghi e poi riluttanti (promettevano un nuovo referendum ma non ci credevano); ma anche perché hanno proposto ricette economiche e sociali vecchie almeno quanto il protezionismo e almeno altrettanto inattuali e fallimentari. Sarebbero certamente piaciute ai minatori di “E le stelle stanno a guardare”, ma non a operai che hanno visto – e digerito – Margareth Thatcher e Tony Blair.

Che cosa significa, tradotto dall’inglese in americano? Suona campana a morto per il buon vecchio Bernie Sanders, un “Corbyn del Vermont” con maggiore carica umana, e per il suo ‘socialismo’ che, per di più, negli Stati Uniti non ha mai attecchito, mentre in Gran Bretagna ha scritto bei momenti di storia, oltre che di letteratura. E suona campanello d’allarme per Elizabeth Warren, che, però, spaventa i finanzieri di Wall Street più che gli operai del Michigan.

Soprattutto, suona invito a scegliere un candidato che sappia tenere conto di un contesto di timore e di paura, senza incoraggiarlo e/o cavalcarlo, offrendo risposte non di rabbia e di ritorno al passato, ma di speranza e di sguardo al futuro. Parole, per il momento, senza un volto: Joe Biden è quasi certamente una brava persona, ma non ha il dono del carisma; Mike Bloomberg è uno che sa fare soldi e ottenere il consenso, ma è gelido e algido; Pete Buttigieg è giovane – almeno questo -, comunica bene, piace ai media – non è necessariamente un punto di forza alle urne -, è un ‘diverso’ (forse troppo, per gli operai del Michigan, come per tutta l’America benpensante ed evangelica) e non ha esperienza – ma certo non meno di Trump, quando si candidò -.

L’hanno già eletto “nipote d’America”, perché piace ai Nonni d’America. E viene quasi voglia di fare il tifo per lui. Ma qui si torna all’uovo e alla gallina. Conta vincere?, “mascherando” le proprie idee per farlo; o conta battersi per le proprie idee?, rischiando di perdere. I democratici americani hanno la lunga stagione delle primarie, dal 3 febbraio ai primi di giugno, per pensarci e rispondere.

Da Boris a Donald, la lezione per i democratici americani spiegata da Gramaglia

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