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In questo momento medici, infermieri, operatori sanitari stanno producendo il massimo ed encomiabile sforzo per salvare vite umane e ognuno di noi (nella maggioranza dei casi con colpevole ritardo) sta riducendo socialità e pratiche quotidiane per arginare il contagio.

L’emergenza sanitaria dettata dal coronavirus Covid-19, è solo l’ultima delle numerose gravi crisi sotto i riflettori degli ultimi anni (terremoti, alluvioni, disastri tecnologici o attentati terroristici), che confermano la predizione del sociologo Beck, che già alle soglie del 2000, vent’anni fa, parlava di “società del rischio”, cioè un ambiente nel quale emergenze e crisi rappresentano una costante.

Un’epoca inoltre, nella quale la pervasività e la rapidità di diffusione data dai media, soprattutto i social network, permettono un’altissima visibilità delle situazioni di crisi e la possibilità di raggiungere i più svariati pubblici. Non sorprende quindi l’attenzione crescente negli ultimi anni verso il tema della comunicazione di crisi, che ha avuto uno sviluppo diffuso nella sua letteratura.

Le notizie quotidiane confermano che la crisis communciation (questa sconosciuta, vedi l’infelice uscita di Christine Lagarde) dev’essere chiara, trasparente e rispettosa delle sensibilità del pubblico, altrimenti risulta dannosa. Ma altrettanto importanti sono due elementi: la creazione di una “subcultura della crisi”, cioè produrre elementi per una conoscenza di informazioni e linguaggi che permettano alla popolazione di adattarsi subito allo stato di crisi, operazione comunicativa poco visibile ma essenziale per creare fiducia verso chi comunica e la “gestione pubblica delle emozioni”, che risulterà fondamentale nel nostro immediato futuro.

“La reale crisi non è cosa è effettivamente accaduto; è quello che le persone pensano sia accaduto” (Bland, 1995). I prossimi giorni infatti, con la curva dei contagi che continuerà inevitabilmente a crescere, saranno in “molti quelli che dopo giorni di restrizioni diranno (fomentati da chi se ne vuole giovare politicamente) “non serve a nulla stare in casa, fateci uscire” oppure “chiudete tutto, così non è abbastanza”. Va invece trovato un essenziale equilibrio tra ragioni sanitarie, di sicurezza e la necessità di garantire attraverso una rimodulazione della mobilità il tessuto produttivo per tenere in vita il Nord e il resto del Paese. Oggi la crisi generata dal coronavirus Covid-19 non è più una questione solamente sanitaria o economica, c’è anche un fondamentale tema di coesione e pax sociale (del quale la rivolta nelle carceri e proteste dei lavoratori sono una chiara anticipazione) che i più ignorano.

Sarà quindi fondamentale in questa fase il management delle emozioni, per supportare i vertici politici che devono prendere le decisioni e sono influenzati da diversi pubblici di riferimento. Superata questa salita, forse il resto dovrebbe essere in discesa perché lo sarà (si spera) anche la curva del numero dei contagi.

Covid19, la gestione della crisi e il management delle emozioni

Di Andrea Visentin

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