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La Corea del Nord potrebbe annunciare entro la fine del mese la decisione unilaterale di uscire dai negoziati con gli Stati Uniti. Una decisione resa “definitiva”, dicono da Pyongyang, dal recente meeting del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul programma nucleare del Nord. Un “dibattito aperto” organizzato dagli americani – che hanno la presidenza di turno del CdS – che ha irrigidito ulteriormente le posizioni nordcoreane visto che finora, dall’inizio dei contatti, gli Usa avevano sempre evitato questo genere di discussioni.

La fine dei negoziati sarebbe un colpo anche dal valore politico per Donald Trump. Il presidente americano ha intrapreso con Kim Jong-un, il satrapo nordcoreano, un percorso di avvicinamento che ha avuto tre tappe importanti – i tre incontri diretti tra i due leader – e svariati vertici di livello intermedio. Una fase negoziale che dura da circa due anni e che è arrivata dopo i primi mesi infuocati con cui Trump aveva approcciato il dossier minacciando una guerra.

Dopo una partenza razzo, da molto tempo i colloqui sono sostanzialmente in stallo perché le due parti non trovano un accordo su come procedere con la denuclearizzazione. Tuttavia la volontà di uscita dai negoziati del Nord, che seguirebbe un ultimatum annunciato quest’estate, arriva ai media non senza spin politico. Kim sa benissimo che deve mantenere alta la tensione anche – e forse soprattutto – per ragioni interne. I suoi antenati hanno costruito la storia del Paese sull’anti-americanismo – il programma atomico stesso viene considerato come un elemento per contrastare la possibilità di un’aggressione americana.

Dopo la Guerra di Corea degli anni Cinquanta, lo spauracchio americano è servito al regime per strutturarsi (le forme di governo autoritario hanno sempre un nemico contro cui sintetizzare il proprio potere e le paure indottrinate nel popolo). Ora Kim ha stretto la mano all’uomo che incarna quel nemico, e lo ha fatto pensando di coglierne le opportunità. Ma tra i gerarchi del regime c’è chi non è troppo d’accordo – tutto chiaramente in forma subdola, perché farlo pubblicamente significherebbe la condanna a morte.

Kim anche per questo ha cercato di dipingere i colloqui negoziali con Washington sotto la lente degli interessi. Senza dimenticare di alzare i toni ogni tanto, per accontentare i falchi e non destabilizzare anni di lavaggio del cervello tra i cittadini, la propaganda del regime ha dipinto il satrapo come colui che accetta di parlare col nemico per rilanciare una nuova era di “prosperità” (termine usato più volte dalla narrativa nordcoreana, solitamente parola chiave di discorsi e politiche di Trump).

Il fulcro dell’equilibrio è: accettare i negoziati con gli odiati americani, rinunciare a qualcosa del proprio sofferto (da tutti, per primo dai cittadini) programma nucleare, pur di vedersi eliminate le sanzioni così da avere il mercato commerciale di nuovo aperto. Soldi nelle casse del stato, che lo stato avrebbe ri-investito nel Paese. Ma c’è un elemento in cui il meccanismo s’è inceppato: per Kim le sanzioni dovevano essere sollevate già sulla base dei buoni propositi nordcoreani, per Washington non se ne fa niente prima dello smantellamento completo e immediato dell’Atomica. È questo il tema di fondo sul non contatto tra le due parti quando parlano di denuclearizzazione.

Kim in imbarazzo per mesi e mesi di colloqui infruttuosi si mostra nervoso, o meglio deve farlo per salvare la faccia con Paese e gerarchia. È un contesto che Washington comprende, e anche per questo sta accettando il gioco e affrontando tutto con cautela – perfino la ripartenza dei test militari nordcoreani. Finora. Perché adesso potrebbe esserci un elemento che sbilancia la situazione: la Corea del Nord potrebbe non muoversi da sola. Da dietro c’è un attore che è rientrato nel dossier e potrebbe sparigliare le carte soprattutto sul lato americano. La Cina.

Durante la discussione al CdS Onu, il rappresentante cinese, Zhang Jun, ha detto che è “imperativo” che il Consiglio alleggerisca le sanzioni alla Corea del Nord nel tentativo di sostenere i colloqui tra Pyongyang e gli Stati Uniti. Ossia ha sostenuto la posizione nordcoreana che più mette in imbarazzo Trump. Il presidente sarebbe anche propenso a scoprirsi un po’, perché sta cercando di chiudere un accordo con un qualche nemico dell’America da poter anche usare come leva elettorale, ma gli apparati bloccano: niente sollevamento delle sanzioni se prima non c’è la denuclearizzazione.

Zhang stressa il dossier: “È indispensabile che questo consiglio prenda le disposizioni di reversibilità nelle risoluzioni relative alla DPRK (è l’acronimo con cui Pyongyang si descrive: Repubblica popolare democratica coreana. Ndr) il più presto possibile alla luce dell’evolversi della situazione”. La Cina ha un doppio interesse. Da un lato cerca di usare il Nord come elemento nel confronto globale con gli Stati Uniti, ma contemporaneamente cerca di frenare possibili stravaganze da parte di un alleato scomodo, che se dovesse riavviare la politica ostile e aggressiva di due anni fa creerebbe un grattacapo in più per Pechino – che non gradisce troppi riflettori nel cortile del Pacifico.

 

La Cina farà da calmante per i nervosismi di Kim con Trump?

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