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Per l’ennesima volta, la Russia ha preso tutti in contropiede quando si tratta di vicende che riguardino la selezione e\o l’avvicendamento della sua élite al potere.

A Occidente di Mosca non si è riusciti nel passato a prevedere il cambio della guardia al Cremlino, né l’identità del nuovo leader, né la data dell’avvicendamento.

Brezhnev, Andropov, Chernienko, Gorbachev – e fino ai giorni nostri Putin (sconosciuto ai più prima della sua ascesa al potere), sono nomi che il mainstream ha dovuto conoscere solo dopo la ufficializzazione della loro nomina.

Non a caso il termine tutto italiano “papabile” – ad indicare la rosa dei possibili successori a un qualsiasi posto monocratico, non solo in Vaticano – non ha un corrispettivo né nella lingua né nella antropologia politica russa.

Il paradosso, questa volta, è che l’effetto sorpresa è riuscito di nuovo benché l’esito della decisione di turno sembri andare nella direzione nota da tempo, ovvero la permanenza di Putin come perno del sistema politico del paese.

Le cronache raccontano di una corposa serie di riforme costituzionali (sarebbe forse meglio dire, di una nuova Costituzione tout court) in fase di discussione l’11 marzo alla Duma (la camera bassa del Parlamento Russo), tra cui ha destato particolare sorpresa l’azzeramento della conta del massimo di due mandati Presidenziali consecutivi.

In altre parole, il limite dei due mandati (che rimane) viene resettato con l’entrata in vigore della nuova Carta, chiara disposizione ad personam per l’attuale presidente, libero di ricandidarsi ex-novo.

Forse ancora più sorpresa ha destato l’intervento non previsto lo stesso giorno di Putin in persona nella plenaria della Duma – a commento delle suddette – dove, pur non rilevando i suoi piani politici futuri (ergo, dove andrà a collocarsi a mandato presidenziale scaduto) ha parlato con il suo solito tono piuttosto diretto e poco retorico.

L’effetto sorpresa è dovuto al fatto che la mossa è in palese controtendenza (formale) con quanto annunciato negli ultimi mesi dallo stesso Putin dopo le elezioni amministrative di settembre 2019 e confermato durante il rimpasto di governo di gennaio 2020, con la sostituzione del primo ministro Dimitri Medvedev con uno sconosciuto tecnocrate, Mikhail Mishustin.

Dinanzi al calo di consensi del partito del presidente ma a fronte di una tenuta della sua popolarità personale (al 65%); Putin aveva anche allora accennato ad una serie di riforme costituzionali.
Senza dare dettagli, fece intendere che si sarebbe indebolita l’Amministrazione del presidente (struttura in constante crescita di importanza negli ultimi vent’anni) a vantaggio di un rafforzamento di altre istituzioni più ridondanti, come il Consiglio di Stato.

Tutti i principali commentatori ne conclusero che, pur restando al centro del sistema, Putin non volesse né candidarsi per un nuovo mandato alla Presidenza (e di qui la necessità di ridurne il ruolo) ma nemmeno tornare a fare il primo ministro (come aveva fatto nel periodo 2008-2012 quando si avvicendò con Medvedev).

Il capo del Governo è infatti un ruolo di gestione quotidiana di un paese complesso e a rischio di lenta erosione del consenso, esposto come è alle critiche di un’ opinione pubblica sempre più esigente.

I più informati ventilarono l’ipotesi che Putin potesse traghettarsi verso il Consiglio di Stato stesso o addirittura andare alla presidenza del suo Partito, nel tentativo di invertirne il trend di calo progressivo nei consensi.

Il colpo di scena dell’11 Marzo sembra contraddire tutto questo, per quanto la sensazione è che si sia ancora lontani dall’atto finale della vicenda. Ma l’episodio è bastato per dare nuovo slancio a commenti prevedibili e “telefonati” su un Putin-Zar-a-vita e anche per risvegliare un’opposizione di piazza che negli ultimi mesi si era fatta più silente rispetto all’anno scorso.

A questo punto più che disquisire su quale sarà la strada costituzionale che permetterà a Putin di restare al centro del sistema-politico; conviene interrogarsi sul motivo della teatralità del discorso alla Duma e su quale ne sia il messaggio sottostante.

Come sempre per ciò che concerne le dinamiche politiche Russe, si può optare per una chiave di lettura internazionale e per una interna.

Quella internazionale suggerisce che Putin, in un momento piuttosto complesso per la politica estera Russa – con molti (secondo alcuni, troppi) fronti aperti diplomatici e militari, abbia giocato a confondere le carte, sovrapponendo una sua continuità politica a quella degli obiettivi strategici russi nel medio-lungo periodo.

Il momento è sintetizzato bene dal commento del Presidente della Duma Vyacheslav Volodin che senza mezzi termini si riferisce a Putin come principale risorsa del Paese che il mondo invidia alla Russia e che come tale va preservata.

Sul piano interno, invece, l’11 marzo potrebbe essere stato ispirato da cautela e da un gioco in difesa. Nel verticismo della funzione pubblica Russa è noto che da tempo l’”elephant in the room” nelle discussioni dei livelli intermedi e medio-alti riguarda l’incertezza sulla successione a Putin. Ciò ha riproposto in varie occasioni un effetto di pericoloso immobilismo della macchina amministrativa soprattutto in prossimità delle consultazioni elettorali.

A questo va aggiunta una profonda crisi di legittimità dei livelli decisionali tecnocratici nel paese, che spesso si appellano al fattore carismatico del presidente per limitare la loro immagine di strutture in stato confusionale, pure conflittuali al loro interno.

Il ventilare la possibilità di una continuità formale della Presidenza Putin per il futuro potrebbe essere il messaggio rivolto all’interno per chiudere sia le speculazioni che il pre-posizionamento sul dopo-Putin, che sono un serio problema per l’osmosi Russa tra continuità dell’establishment e stabilità del Paese.

La perfetta sintesi a riguardo è il passaggio del discorso di Putin alla Duma dove senza giri di parole dice che la Russia ha da tempo esaurito il suo bonus di esperienze rivoluzionarie e non può permettersi nuovi salti nel buio.

Ai due descritti, potrebbe aggiungersi il messaggio trasversale di serrare le fila sotto la figura del presidente-capo nella congiuntura delicata tra guerra del petrolio con l’Arabia Saudita, economia stagnante, difesa degli interessi strategici in Siria e di quelli tattici in Libia, rublo in caduta libera e cronica guerra delle sanzioni. Senza contare l’imprevedibile e temutissimo impatto che potrebbe portare una epidemia di Coronavirus in un Paese con una cronica disomogeneità demografica.

Ripetendo uno schema consolidato nel passato, ancora una volta la ricetta Russa per affrontare il momento dell’emergenza è il richiamo al binomio indissolubile “spirito collettivo di disciplina e sacrificio” / “leader carismatico indiscusso”.

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