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La Cina è veramente vicina. Mezzo secolo fa (1967) solo per Marco Bellocchio, nel film cult dell’allora “sinistra extraparlamentare”. Adesso è così vicina al Parlamento da offendersi a morte perché al Senato trova ascolto un attivista democratico di Hong Kong, Joshua Wong, e a prendersela con chi ha avuto l’ardire di andare ad ascoltarlo. Memore forse dell’Inno di Mameli, l’Italia non china la testa. La risposta dei nostri parlamentari alle durissime critiche di Pechino è stata ferma e di rara compattezza trasversale. Peccato che l’unica voce stonata nel coro sia stata quella del ministro degli Esteri, che si è arrampicato sugli specchi per dare un colpo al cerchio parlamentare e un altro alla botte cinese – col probabile risultato di scontentare entrambi.

Nessuno poteva pensare che la presenza Joshua Wong a Palazzo Madama facesse le gioie di Pechino. In queste situazioni lo Stato che a torto o ragione si senta leso da un’iniziativa politica che ha luogo in un altro non manca mai di fargli conoscere il proprio dispiacere. Diplomaticamente, con un’infinita gamma di modalità di comunicazione per lo più riservate. Andare allo scoperto è di per sé un’escalation. Nel caso di specie la protesta dell’Ambasciata cinese a Roma era decisamente sopra le righe e conteneva inaccettabili accuse di “alimentare la violenza e il crimine” e di “irresponsabilità” nel dar fiato ad una voce “separatista pro-indipendenza”. Inaccettabili per chi crede nella libertà di parola.

La Farnesina se n’è accorta. Il ministro degli Esteri meno. La professionalità conta ancora qualcosa: la diplomazia italiana ha stigmatizzato l’entrata a gamba tesa di Pechino come “inaccettabile ingerenza”. Luigi Di Maio si è invece avventurato in una confusa spiegazione che sembra più voler giustificare il Senato italiano che non respingere l’attacco cinese. Vi si coglie la fragilità di una politica estera che il titolare non riesce a svincolare da condizionamenti d’altra natura, forse dal desiderio di tagliare il nastro inaugurale nuova Via della Seta. Che è il tasto su cui faceva leva Pechino.

Hong Kong sta ancora festeggiando la schiacciante vittoria delle forze democratiche nelle elezioni municipali. La sparata di Pechino contro l’Italia tradisce la preoccupazione di contagio. Questo è un problema cinese. Quello italiano è che sia stata sproporzionata e ricattatoria. Sproporzionata: gli accenti ricalcano la durezza del linguaggio di Xi Jinping contro gli Usa per un atto legislativo sanzionatorio, altro che audizione parlamentare. Ricattatoria: il messaggio, non tanto subliminale, è “se volete fare affari con noi, state zitti su Hong Kong”.

Adeguarvisi sarebbe pessima politica estera. L’Italia vuole la nuova Via della Seta nei nostri porti non soltanto per nostalgia di Marco Polo ma per fondati motivi economici e geopolitici. Non però a senso unico. Bisogna che il rapporto fra Roma e Pechino sia di mutuo rispetto. Il che significa tener fermi principi e valori altrimenti da una parte il rispetto se ne va, dall’altra diventa servilismo. Da non confondere con ospitalità. Ricordiamo la vergogna delle statue secolari pudicamente coperte in Campidoglio per la visita del Presidente iraniano Hassan Rouhani.

L’ansia di compiacere o rabbonire gli interlocutori internazionali non è politica estera. È adulazione che da un messaggio di debolezza. Nel caso della Cina e di Hong Kong, di tempismo infelice nel momento in cui Ue e Nato – di cui facciamo parte – cercano di mettere in piedi una politica comune nei confronti di Xi Jinping. È la nostra miglior polizza di assicurazione. La reazione cinese al caso Joshua Wong mette in guardia dalla tentazione di fare da soli con un gigante che ci schiaccerebbe. E che ormai è vicino.

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