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Nel giro di pochi giorni due elicotteri militari del regime siriano sono stati abbattuti nella Siria nord-occidentale, nell’area della provincia di Idlib — che è l’ultima striscia di territorio ancora in mano ai ribelli. Il mezzo abbattuto ieri – dopo il primo, colpito martedì – sorvolava la zona rurale attorno ad Aleppo (contigua a Idlib) ed è caduto in una fascia che rientra nel perimetro di sicurezza che Russia e Turchia hanno costruito per il de-conflincting. Ma la situazione sembra tutt’altro che sul punto di de-escalare.

Mosca sostiene le forze lealiste, Ankara i gruppi di Idlib – tra cui ci sono anche formazioni jihadiste all’interno dell’ombrello noto come Hayat Tahrir al Sham e gruppi islamisti meno radicali. Finora turchi e russi hanno gestito la situazione attraverso una sorta di partnership, seppur da fronti opposti. Posizioni distanti di facciata, intesa sotto la superficie ma è possibile che le cose stiano cambiando. Il regime da una decina di giorni ha iniziato a colpire le unità regolari turche inviate in Siria in modo indipendente (ossia disobbedendo a un ordine informale di evitare scontri diretti con l’esercito turco). Ankara altrettanto, ha scelto la risposta diretta in almeno in un’occasione nelle scorse settimane, colpendo obiettivi siriani per rappresaglia – postazioni turche erano anche in quel caso all’interno dell’area di de-escalation.

L’abbattimento dei due velivoli indica che sul territorio siriano in questo momento ci sono Manpads antiaerei e soprattutto competenze in grado di farli funzionare a dovere – e forse potrebbero essere parte dei moltissimi rinforzi (una specie di invasione) che Ankara ha inviato nel nord siriano. La crisi in corso potrebbe essere superata, perché Russia e Turchia hanno in ballo interessi molto profondi, che richiedono reciprocità, ma non è da escludere che le cose possano precipitare. Mosca potrebbe non essere più in grado di controllare la situazione. Quello che ci si gioca adesso riguarda la stabilità interno di Turchia e Siria, questioni che vanno oltre il motivo dell’avanzata siriana. Il motivo formale su cui c’era consenso russo-turco è controllare i lineamenti stradali M4 e M5, che connettono Damasco con Aleppo e quest’ultima con la costa mediterranea. Ma tutto s’è mosso molto rapidamente andando apparentemente fuori controllo.

La questione per Ankara è profonda. Recep Tayyp Erdogan ha pensato per il nord della Siria un piano di ingegneria etnica: sostituire i curdi che vivono quelle fasce di territorio e che per la Turchia sono nemici esistenziali. E sostituirli usando i profughi siriani che si trovano da tempo nei campi di confine. Tre milioni e mezzo persone che stanno diventando un peso, sia economico che politico, potrebbero invece diventare la carta vincente definitiva contro i nemici curdi. Ma l’attacco lealista su Idlib ha creato esso stesso un’ondata di 700mila nuovi profughi che si sono addossati verso il passaggio turco-siriano. Si tratta di uomini, donne e bambini che in molti casi si trovavano in quell’area perché vi erano stati sposati dal regime – su progetto russo – durante le varie campagne di riconquista assadista. Ora vivono una nuova condizione di guerra, estremizzata anche dall’ondata di freddo anomalo che sta investendo il Medio Oriente in questi giorni.

Gli abitanti di Idlib sono l’elemento chiave della situazione attuale – quelli già nei campi in Turchia l’aspetto strategico. All’interno dell’ultima provincia ribelle ci sono tre milioni di persone in totale. La stragrande maggioranza di queste è legata all’opposizione. Combattenti, attivisti, e famiglie: adesso vivono in un’area che sembra una colonia protetta dai turchi, e difficilmente accetteranno di tornare sotto il regime – che potrebbe riservare loro trattamenti ben poco civili. Per il piano etnico che la Turchia ha per il nord della Siria, le persone di Idlib devono restare al proprio posto. Una destabilizzazione altera i progetti. Ankara ne teme  chiaramente l’impatto qualora, una volta caduta Idlib nelle mani governative, gli abitanti dell’area dovessero decidere in massa di oltrepassare il confine.

Erdogan progetta da anni di rovesciare all’interno della Siria i suoi profughi. Intende creare una fascia simile a un protettorato che dovrebbe andare dal cantone di Afrin (già turco) fino al nord di Aleppo e più a est verso Jarablus. Ne ha mostrato i piani anche all’ultima Assemblea delle Nazioni Unite. E tutto è diventato più concretizzabile da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato la tutela dei curdi lungo l’aerea di confine tra Siria e Turchia. Ma l’attacco su Idlib complica tutto. Il regime per ora non sembra accettare la spartizione studiata dal turco, visto che da sempre rivendica l’intenzione di riconquistare “ogni centimetro” della Siria. L’attacco a Idlib diventa per questo un nodo da districare, perché chiaramente il governo Erdogan non può permettersi di far saltare i propri intenti e, anziché smaltirne la massa ospitare altri nuovi profughi – ne perderebbe la linea nazionalista che lo spinge – e Bashar el Assad non può accettare di perdere chilometri di territorio e crearsi in Siria delle piccole Gaza (cit. Eugenio Dacrema, Ispi) da dove i ribelli porterebbero avanti una guerriglia a bassa intensità continua.

In mezzo la Russia, che finora ha gestito Damasco e Ankara, ma ora – davanti alla maggiore sicurezza acquisita dai due attori – sembra trovarsi da gestire  una sfida importante. Potrebbe essere disposta a vedere fino a dove ha intenzione di arrivare Ankara. Ossia vedere se è in grado di spingersi davvero fino a una guerra con la Siria. Potrebbe scegliere la mediazione. Con i turchi ha la possibilità di usare come elemento di scambio proprio i curdi, che occupano una zona che adesso Mosca controlla dopo l’uscita parziale americana. E d’altra parte con Damasco potrebbe usare la carta dell’appoggio politico e militare, dimostrato dal settembre 2015 a oggi, per strappare qualche concessione al regime.

 

 

 

 

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