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L’adesione italiana al progetto inglese per il caccia di sesta generazione è quella giusta, nei tempi e nella scelta di evitare la cordata promossa da Francia e Germania. Eppure, il processo decisionale è apparso “debole e lacunoso, privo di una dottrina militare di riferimento, assolutamente da sostanziare e irrobustire”. Parola del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, che Formiche.net ha sentito per capire dove andranno (o non andranno) le dinamiche attualmente in corso nel Vecchio continente sul caccia del futuro, tra il progetto franco-tedesco Fcas e quello promosso da Londra.

Generale, lei è stato sempre perplesso sul dibattito relativo alla sesta generazione. Perché?

Innanzitutto, è opportuno chiarire che la decisione di entrare nel programma Tempest è stata corretta, adottata nei tempi giusti e idonea a consentirci di schierarci in questa partita. Non potevamo restare fuori da una simile iniziativa multinazionale (non europea, per ora) concretizzatasi nei due diversi fronti: britannico e franco-tedesco. Tuttavia, le perplessità riguardano la correttezza tecnica della decisione. Mi sembra che alla basa della scelta italiana, e di tutti i Paesi che si sono incamminati verso una delle due iniziative, non ci sia un pensiero militare corretto.

Ci spieghi meglio.

Per ciò che conosco, non c’è ancora una dottrina che sostenga la necessità di un caccia di sesta generazione, né tanto meno si conosce cosa sia la “sesta generazione”. Difatti, mi pare che ancora non ci sia una percezione diffusa della quinta generazione, quella concretizzata con l’F-35, tra tutti i possibili utilizzatori.

Da dove partirebbe dunque per pensare al velivolo del futuro?

Bisogna partire dalla considerazione che oggi i velivoli da combattimento non sono sistemi idonei a confrontarsi con scenari asimmetrici. Sono divenuti strumenti di letalità indiscriminata, da denunciare e fermare. Pur avendo raggiungo un’elevata precisione e per disponendo di tecnologia pressoché illimitata, i sistemi d’arma attuali vengono impiegati come se fossero velivoli di prima o seconda generazione, con un uso indiscriminato della forza. Questo sono oggi i velivoli da combattimento negli scenari di conflitto sparsi in tutto il mondo. Perciò, questo dovrebbe essere il pensiero d’avvio nell’incamminarsi su un’iniziativa per l’individuazione di un nuovo sistema d’arma, comprendendo realmente cos’è necessario per affrontare gli scenari prevedibili. Per quelli simmetrici, tradizionali, il discorso chiaramente cambia; ma all’orizzonte se ne vedono ben pochi.

Sta pensando dunque a uno sforzo di ragionamento nel lunghissimo periodo?

È necessaria l’elaborazione di una dottrina di impiego dello strumento militare che attualmente non esiste. Siamo rimasti fermi alla dottrina Nato, mentre quella che dovrebbe essere di riferimento per l’impiego delle forze viene scoperta di giorno in giorno duranti i conflitti, provocando inconvenienti sull’uso sconsiderato della forza di cui parlavo prima.

Questo è mancato nei progetti sul velivolo di sesta generazione?

Mi pare di sì. Tempest e Fcas sembrano, almeno sino ad ora, frutto degli interessi dei colossi industriali dei rispettivi Paesi che hanno convinto i governi a intraprendere progetti multimiliardari. Ancora una volta, dobbiamo assistere impotenti al ribaltamento dell’equazione che vuole che l’industria faccia ciò di cui le Forze armate hanno bisogno, e non che queste si accodino alle scelte industriali, seppur fatte su obiettivi legittimi come la preservazione della tecnologia e il profitto.

Comunque gli altri Paesi erano partiti con decisione, e l’Italia ha dovuto fare una scelta per non restare indietro.

La scelta è stata giusta, anche sul progetto a cui aderire. C’è infatti una motivazione fondamentale che doveva sconsigliare di affiancarsi alla cordata franco-tedesca-spagnola dell’Fcas. I francesi, storicamente, hanno sempre fatto emergere problemi nelle iniziative internazionali, in particolare europee, concernenti armamenti e sistemi aerei. In più, la Germania è ormai da anni appesantita da una politica di difesa che ha trascurato l’efficienza delle Forze armate, tanto da costringere i militari tedeschi a uscire allo scoperto e denunciare l’incuria della politica nei loro confronti. I pur obbedienti e rispettosi militari tedeschi hanno denunciato in più di un’occasione una serie di inefficienza. Siamo di fronte al cieco e allo zoppo: un Paese che non è mai riuscito a condividere, volendo sempre guidare, e un altro che deve recuperare la volontà di una politica di difesa seria.

E ora che abbiamo aderito al Tempest, cosa si dovrebbe fare secondo lei?

Andrebbe individuato un punto di non ritorno. Quando il treno parte e si sale a bordo, bisogna capire quale è il punto in cui scendere senza farsi male. Se si parte e si decide di proseguire il viaggio, bisogna rimanere fino a destinazione. Sono programmi pluriennali di lungo periodo, e sarà necessario capire quando sarà ora di ritirarsi qualora il programma non dovesse corrispondere alle nostre aspettative. Partire oggi significa pagare cambiali per molti lustri. Non credo che sia la condizione ideale per un Paese come il nostro, così come per gli altri che devono stare molto attenti al modo in cui impegnare le risorse.

Eppure, per una volta, industria, mondo militare e (infine) politica si sono trovati tutti d’accordo. Poi c’è lei, generale, in controtendenza…

La premessa è sempre quella: abbiamo fatto bene. L’Eurofighter deve avere un sostituto, ed è dunque opportuno iniziare a pensarci. Il problema, però, è proprio che manca il pensiero di fondo. A mia conoscenza, l’unico elemento dottrinale di partenza fin’ora considerato è la sostituzione dei Typhoon. Non vedo un dibattito tra tecnici o tra Stati maggiori, ad esempio all’interno del Comitato militare dell’Unione europea. Forse mi sto sbagliando, e sarò lieto di farlo, ma temo che oltre alla necessità della sostituzione non ci sia granché. Il treno sta partendo e non ci siamo saliti sopra. Però, visto che potrebbe cambiare direzione, cerchiamo di capire quale è l’approdo migliore e di quali tecnologie abbiamo bisogno per le nostre Forze armate.

Il Tempest? Scelta giusta ma pensiero debole. L'opinione di Tricarico

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