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Nella terra-madre della battaglia finale, l’Emilia Romagna, lo scontro è entrato nel vivo. Non ci si contende soltanto il governo della Regione, ma quello del Paese. La Lega e il centrodestra da un lato e il Pd dall’altro non risparmieranno nulla agli elettori, perché sanno che dall’esito del voto dipenderà lo sfratto o meno di Palazzo Chigi.

Se ieri Matteo Salvini ha lanciato la sfida nel modo più classico che si potesse immaginare, Nicola Zingaretti ha tradito il suo imbarazzato timore di perdere la partita buttandola in caciara, come si dice a Roma. La realtà offre uno scenario semplice all’apparenza, ma abbastanza complesso. I leghisti, insieme a Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, sono palesemente in vantaggio con Lucia Borgonzoni e godono del consenso di una significativa fetta di elettorato che attende dai tempi di Guazzaloca il “cambiamento”, posto che le sinistre non sono riuscite in tutti questi anni a riprogettare la Regione e a darle un minimo di speranza quanto a sviluppo e a tenuta civile.

Il Pd immaginava di aggrapparsi all’alleato Cinque stelle per tentare nuovamente la scalata al potere che qualcuno dei loro ritiene spettargli per diritto ereditario. Ma i pentastellati, certi di una loro miserevole performance elettorale, se la sono data a gambe (come probabilmente faranno in Calabria), lasciando Zingaretti da solo, malinconicamente piegato sui suoi errori che si riassumono nell’essersi fatto mettere nel sacco da Beppe Grillo e da Matteo Renzi, siglando un patto scellerato e scombinato con il M5S che aveva combattuto allo stremo.

La partita è dunque “nazionale”, in Emilia Romagna. Il test regionale dovrà prima di tutto rispondere al quesito che tormenta i dem: è stato giusto o sbagliato metterci insieme con il partito più antisistema, che palesemente ci odia, pur di afferrare una fetta di potere e pensare di gestirlo alla nostra maniera? La risposta è nei fatti: dall’Ilva in su sono soltanto macerie quelle tra cui il governo giallorosso cammina e inciampa a ogni passo. Se anche i pentastellati fossero della partita, la vittoria del Pd non sarebbe assicurata.

La verità – a prescindere dai grillini, confusi, spaventati, divisi, agonizzanti – è che il Pd da tempo immemorabile non è più un partito politico. È un assemblaggio di correnti e di ambizioni che in Emilia Romagna si confronteranno nella “loro” forse ultima battaglia prima di rifondarlo, sempre che vi riescano.

Potrebbe anche accadere che la partita della vita Salvini non la vinca, ma non c’è nessuno al momento disposto a scommettere, resta il fatto che comunque il Pd non vincerà politicamente se anche dovesse strappare qualche decimale.

La sinistra da quelle parti, come altrove, ha esaurito da tempo la sua “spinta propulsiva”. Non ha idee, uomini, organizzazioni e perfino il movimento cooperativo – da quel che si sa – sembra la stia abbandonando per andare a ingrossare le file di Salvini. Il quale, va pure sottolineato, in pochi mesi, si è come depurato dell’euforia del potere ed ha abbracciato una visione pragmatica senza aver rinnegato le sue idee.

Insomma, il sovranismo piuttosto farlocco che non ha dato i frutti sperati in Europa, non è più la sua stella polare, che sembra invece indirizzarsi verso lidi più moderati. L’Emilia Romagna, terra di gente ragionevole e pratica, delle querelles “civili” sui cosiddetti “diritti”, non ne può più. Vorrebbe riconquistare il suo primato economico e indirizzare le politiche sociali della sinistra come faceva una volta. Ma perché il sogno di una Regione rinnovata si realizzi va smantellato il falansterio delle clientele partitiche e degli usi domestici della politica che hanno caratterizzato la sinistra dopo l’esperienza Guazzaloca.

Ha un bel dire Federico Pizzarotti, ex sindaco di Parma, grillino pentito, che la Lega non vincerà perché non ha un programma. Nessuno ha mai vinto una elezione su un programma, soprattutto quando è falso come un libro dei sogni. Si vince su sentimenti e risentimenti, ambizioni e interessi, sull’agibilità di una manovra innovativa e non su alleanze spurie, fittizie, sottoscritte al buio o ricorrendo perfino alla cosiddetta “desistenza”, che è poi quella cosa un po’ vergognosetta che i grillini vorrebbero offrire al Pd tanto per non staccare la spina a Roma.

E invece, per quanto moltitudini interessate dicano il contrario, sarà proprio questo l’esito. Se la “guerra” Emiliano-romagnola finirà come la maggior parte degli analisti ritiene, per Conte non ci sarà altra strada che quella delle dimissioni. E si capisce. L’Italia sarà in stragrande maggioranza di centrodestra (mettiamoci dentro anche la Calabria): come la si potrà governare con una vecchia maggioranza avvizzita nei giochi di potere, trasformista, incapace di prendere un solo provvedimento, neppure quello osceno sulla prescrizione che si è fatto approvare con l’impegno della promulgazione differita?

Intanto la manovra economica si riempie di tasse giorno dopo giorno, alla faccia della “povertà sconfitta”, dell’Ilva nessuno sa cosa farsene e il Paese non è in grado di fronteggiare neppure i temporali autunnali perché il dissesto idrogeologico lo sta letteralmente affogando.

Quale “programma” invoca Pizzarotti? Il solo contendibile è quello di assumersi responsabilità credibili davanti all’elettorato. Peccato che Zingaretti abbia la testa alle manovre di Renzi piuttosto che ai guai emiliano-romagnoli. Ecco perché la Lega e il centrodestra vinceranno a gennaio e Conte dovrà cedere la campanella. Può darsi anche che lo show-down sia ancora più ampio: la fine della legislatura, il solo atto politico sensato in questi tempi privi di senno.

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