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A mio modo di vedere la storia politica di Forza Italia finisce il 25 aprile del 2009, quando Silvio Berlusconi pronuncia il discorso più significativo della sua carriera di leader e di uomo delle istituzioni.

Con quelle parole (pronunciate a poche settimane dal terremoto e davanti a molti partigiani dell’Anpi) Berlusconi propone un patto di riconciliazione in nome dell’interesse nazionale, patto che però non verrà mai messo in pratica (anche, ma non esclusivamente, per errori commessi proprio da lui). E per giunta la mancata applicazione di quel patto conduce l’avventura politica del Cavaliere ad una serie di disastri che sono facilmente elencabili in tre tappe essenziali: disgregazione della coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 (Fini e tutti quelli che lo seguono) con conseguente approdo di Mario Monti a Palazzo Chigi, fallimento del fragilissimo accordo con Renzi sulle riforme istituzionali (durato pochi mesi) con definitivo passaggio di Forza Italia all’opposizione e, infine, durissime sconfitte elettorali nel 2018 (politiche) e 2019 (europee). Insomma dal 2009 in poi Berlusconi ha sostanzialmente “bucato” tutti i momenti elettorali, fino al malinconico 8,7 % del 26 maggio (il Popolo delle Libertà prende il 46,8 nelle elezioni politiche del 2008 e il 29,1 nel 2013), diventando, di fatto, un soggetto marginale sulla scena politica italiana.

Sarebbe però sbagliato ridurre tutto alla crudezza dei numeri, perché dietro c’è un tema più profondo che deve essere compreso. Il punto essenziale è che l’Italia cui parlava (con straordinario successo) il Cavaliere è nel frattempo svanita, perché è l’Italia tutto sommato speranzosa e ottimista degli anni ‘90, un’Italia che nel frattempo è diventata rancorosa e pessimista, non a caso ben interpretata da Grillo e da Salvini, perfetti nell’epoca di YouTube e Instagram (mentre Berlusconi è figlio purissimo della TV nazional-popolare, anzi ne è l’editore per eccellenza). Quindi il tema non è soltanto anagrafico (gli anni passano anche per il Cavaliere, pur se lui lo nega anche a sé stesso) ma è sociale e politico, nel più profondo significato dei due aggettivi.

Allora ecco chiarirsi la sfida che hanno davanti Giovanni Toti e Mara Carfagna (e tutti gli altri del gruppo dirigente di Forza Italia), se davvero vogliono fare qualcosa di serio, cioè qualcosa di diverso da gestire il declino salvando qualche seggio in Parlamento o nelle assemblee locali. Essi devono cioè cominciare da zero (o quasi) dando voce a quell’Italia che non vota, che è di centro (ma non è moderata), che sogna un Paese europeo ma non inchinato a Bruxelles o a Berlino, che vuole vivere in una democrazia liberale capace di fare qualcosa meglio di miseri “zero virgola” nella crescita del Pil. È una sfida durissima, perché in Forza Italia sin qui tutti hanno vissuto di rendita all’ombra di Berlusconi.

Ora però si naviga in mare aperto, se lo ficchino in testa tutti (Toti e Carfagna per primi). Vedremo, a cominciare dal 6 luglio (cioè l’assemblea che Toti sta organizzando a Roma), se riescono a partire con il piede giusto. All’Italia non serve un altro mesto partitino di centro.

Forza Italia è finita nel 2009. A Toti/Carfagna tocca fare sul serio

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