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È stato il giorno dell’addio. Con Mario Draghi che lascia la guida della Bce, passando il testimone a Christine Lagarde, l’avvocato d’affari francese, che sedette al capezzale delle crisi greca, con la maglia di direttrice del Fondo monetario. Nessun “coccodrillo” per celebrare un “grande italiano”, come ha detto di lui Carlo Bonomi, capo della Confindustria lombarda. Non è necessario. Di Jean Claude Trichet, che lo precedette in quell’incarico, pochi si ricordano. Il nome di quest’alto commis d’Etat, allievo di Federico Caffè, da sempre nei gangli vitali prima dell’Italia ed ora dell’Unione europea, è da tutti conosciuto.

Sia da coloro che gli hanno tributato i giusti meriti. Sia da coloro che lo hanno, anche pesantemente, avversato. Non riuscendo tuttavia a trovare un solido appiglio alle loro critiche, sebbene avessero tante frecce al loro arco. A partire dal fatto che si trattava di un “italiano”. Di un personaggio, cioè che solo per avere in tasca il passaporto del suo Paese, doveva mostrarsi come la moglie di Cesare. Al di sopra di qualsiasi sospetto. Non era facile sostenere quel ruolo ed al tempo stesso inventarsi “misure non convenzionali”. In grado di battere una pelosa ortodossia: questa sì, foglia di fico di inossidabili interessi egemonici. Eppure Draghi c’è riuscito. Facendo solo ricorso all’opera di convinzione, forte di una determinazione che derivava dalla conoscenza.

Il suo successore – Christine Lagarde – sarà in grado di fare altrettanto? Questo è l’interrogativo che aleggiava, seppure inespresso, durante l’ultima conferenza stampa dell’ormai ex presidente della Bce. Il lascito ottenuto le ha spianato la strada. Nel breve periodo la politica della banca Europea, per quanto riguarda tassi d’interesse (negativi) ed acquisto di titoli, nell’ambito delle procedure del Quantitative easing, non cambierà. Il neo presidente dovrà, in compenso, cercare di ricomporre le fratture che si sono determinate all’interno del board. Con la fronda, guidata dalla Bundesbank e dall’Olanda, che non ha esitato a rendere, più volte, pubblico il proprio dissenso. E già questa sarà una bella gatta a pelare. Una battaglia da vincere per poter continuare una guerra che non è certo finita.

Purtroppo, come spesso accade, la realtà si è dimostrata più ostica di qualsiasi teoria. La politica monetaria più accomodante, per quanto necessaria, non è riuscita nell’intento voluto. Non tanto quello di promuovere crescita e benessere, che dipendono da ben altre variabili. Quanto nel riportare il tasso d’inflazione al 2 per cento annuo, secondo la prescrizione del suo stesso Statuto. Nonostante gli sforzi, questo traguardo è rimasto lontano, con una distanza che tende a crescere anziché diminuire. Mentre i segnali di crisi, seppur per mille motivi (dalla Brexit a Trump), diventano sempre più allarmanti.

L’impressione è che si sia giunti, comunque, alla fine di un ciclo. Quello che è coinciso con la stessa gestione di Mario Draghi. Da domani bisognerà inventarsi qualcosa di nuovo. Non per onorare la sua memoria, ma a causa dei cambiamenti intervenuti in un panorama, che non è più lo stesso. Del resto alcune armi, come capita in ogni guerra, si sono logorate. Tassi d’interesse negativi possono (anzi devono) sopravvivere. Ma la loro forza propulsiva si è progressivamente esaurita. Fino a risolversi nel suo contrario. “L’effetto ricchezza” che muove le aspettative degli operatori economici (famiglie, imprese, risparmiatori) non ha una tendenza lineare. Somiglia, al contrario, ad una grande curva parabolica convessa.

All’inizio, il taglio del tasso d’interesse genera euforia. Un segnale della possibile ripresa che induce famiglie ed imprese ad anticipare gli acquisti per far fronte ai bisogni futuri, che potranno essere finanziati dalla maggiore disponibilità di reddito. Ma se il fenomeno permane nel tempo e la ripresa non arriva, meglio tirare i remi in barca. Risparmiare per ricostruire il proprio capitale finanziario, falcidiato dai bassi rendimenti. E garantirsi dall’incerto futuro. L’esempio italiano è illuminante. Nonostante un reddito disponibile insoddisfacente la quota del risparmio è progressivamente aumentata, comprimendo consumi e domanda interna.

C’è poi un secondo fattore di natura tecnica. I titoli che la Bce potrebbe acquistare sono diventati sempre più scarsi. Non tutti allo stesso modo. Ma gli acquisti sono vincolati alle quote che ciascun Paese possiede nel capitale della stessa Bce. La penuria di Bund tedeschi, se non cambieranno, le regole d’ingaggio finirà, pertanto, di inceppare l’intero meccanismo, molto prima di quanto ci si possa aspettare. Problemi che finiranno sul tavolo della Lagarde: alla quale Draghi non ha voluto dare alcun consiglio. Come ha detto nella conferenza stampa. Sicuro ch’essa sarà in grado di fare e disporre.

Purtroppo, non ne siamo così sicuri. Il problema non è ovviamente la caratura del personaggio. Ma le incognite di un nuovo ciclo. Finora la Bce è stata al vertice di un sistema unitario, quale può essere solo il mercato finanziario internazionale. Ma già da oggi, come del resto più volte auspicato da Mario Draghi, la palla passa ai governi dei singoli Paesi: cui spetta elaborare una politica economica centrata sulla necessità di una ripresa consistente delle loro economie. Qualcosa che la stessa Commissione europea è in grado, paradossalmente, di frenare: facendo ricorso alle astruserie esclusivamente contabili che caratterizzano il suo modo di operare, ma non di favorire.
Certo: l’azione dei singoli governi presenta le caratteristiche dello spillover. Condizionano con le loro politiche il resto dell’ambiente in cui operano. La crisi tedesca ha un effetto diretto ed immediato su quella italiana. Ma rimettere in modo l’intero convoglio richiede una lungimiranza che oggi non si vede. E sarà questo il principale problema che la neo-presidentessa dovrà affrontare.

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