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I muri, lo ricorderemo meglio nei prossimi giorni con il trentesimo anniversario berlinese, non cadono da soli. Anzi, alle volte il grande gioco delle potenze del mondo è ricostruirli sulle teste dei popoli che li hanno abbattuti. Va così anche con il muro della cittadinanza negata nel mondo arabo, che in queste ora vede i libanesi di ogni credo e ogni confessione tornare a dimostrare di voler abbattere nonostante tutti i partiti di tutti i campi tribali e confessionali si oppongano.

Per questo era impossibile che non tornassero alla mente le immagini del 2005, quando i libanesi abbatterono quel muro della cittadinanza negata in testa all’ultimo occupante, i siriani di Assad. Ma anche in quel caso il muro della cittadinanza negata è stato ricostruito sulle loro teste dal balletto tribale delle diplomazie, a cominciare da quelle arabe. Ora, in questo autunno 2019, la protesta si estende, ora riguarda anche il sud che Hezbollah pensava di aver cloroformizzato contro l’idea di cittadinanza nel nome di quella di resistenza. Resistenza a Israele, che in Libano non c’è più da 20 anni. Così il muro rimase anche quella volta, e le pistolettate siriane uccisero le voci più alte della cittadinanza. Ecco perché in queste ore proprio Hezbollah, e il suo presidente cristiano, l’ex generale Aoun, salveranno il governo agonizzante di Saad Hariri (nella foto), delegittimato da tre milioni di libanesi su 3,5. Il governo è caduto, ma loro lo rialzeranno perché non possono fare altro. Ma la richiesta di cittadinanza questa volta rimane, rimarrà, perché la richiesta contro politici corrotti di ogni fazione è così estesa che a tornare alla mente più che il 2005 è il 1995.

Quando Giovanni Paolo II convocò il sinodo speciale per il Libano, il Paese era in condizioni drammatiche. Di lì a breve, nel 1995, l’invito a prendere parte ai lavori sinodali venne recapitato ai leader religiosi di tutte le altre comunità libanesi. Un’occasione che nonostante diffuse resistenze i libanesi seppero non perdere. In particolare non si può non citare il sunnita Mohammad Sammak e il vescovo ortodosso Khoder. Nel 1995, quando i lavori ebbero inizio, c’erano tutti nella grande aula sinodale. L’Instrumentum Laboris conteneva delle affermazioni che il Libano attendeva da anni: “ La Chiesa ha visto con dolore i suoi figli uccidere, essere uccisi e uccidersi tra di loro”. La speranza nuova per il Libano veniva da una ritrovata fratellanza nella comune appartenga alla cultura araba.
Ma le scorciatoie della politica non hanno consentito a quella svolta di cambiare radicalmente il corso degli eventi. I signori della guerra rimasero i signori del salotto della politica, eppure la novità venne avvertita e produsse un primo epocale rinnovamento del discorso cristiano. Come indicò nell’esortazione apostolica post-sinodale Papa Giovanni Paolo II i cristiani infatti rinunciarono all’idea di non essere arabi, di non appartenere a quella cultura; solo riconoscendosi a pieno titolo in essa avrebbero offerto di nuovo il grande contributo che tutto il Paese e il mondo arabo si aspettavano da loro.
L’Ecclesia in Libano si assumeva tutto il peso di una identità scossa, lacerata, per aiutare a rammendare le ferite e ritrovare la forza di vivere insieme. Ma Ecclesia è parola troppo importante per poter essere offerta in un contesto che nega la persona, quindi il cittadino. La politica per seguire e recepire la lezione sinodale non poteva ignorare la persona, scossa dalla guerra che aveva cancellato i diritti di ciascuno nella totalizzante appartenenza comunitaria. Fu questa idea a condurre per mano i libanesi nella costruzione della loro loro nuova comunità: tutti arabi, tutti persone portatrici di diritti inalienabili e legati a comunità intestatarie di tutele mai negabili. Nacque così il modello libanese.

Oggi le strade di tutto il Libano scosse dalla perdita di certezze, di speranze, di visioni, si rivoltano di nuovo alla politica chiusa, identitaria, corrotta, per rivendicare i loro diritti di padri, di madri, di figli che richiedono cittadinanza, cioè diritti. E lo fanno senza alcun ossequio nei confronti delle milizie, più o meno ufficialmente in armi, che impediscono di procedere nella costruzione del bene comune. Così il simbolo di questo Libano spaesato, confuso, indignato con una politica rimasta ferma a letture tribali, sembra proprio il nuovo vescovo maronita di Beirut, monsignor Paul Abdel Sater. Appena eletto ha venduto tutte le auto di lusso del vescovado, poi ha chiesto a tutti gli istituti religiosi di conservare a tutti gli alunni il diritto di frequentazione dei corsi scolastici, anche se le loro famiglie non possono pagare le rette.

È soltanto un esempio del cammino possibile verso la ricostruzione libanese, della cultura del vivere insieme. Lì intorno al vescovado i giovani che chiedono dignità e onestà sanno che quella Chiesa parlerà per loro perché ricorda la lettera a Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] ” Come i loro fratelli i cristiani di oggi condividono la lingua, scendono in piazza nel nord e nel sud del Paese, rivendicano il loro diritto a essere riconosciuti cittadini come i sunniti che si levano contro le appartenenze identitarie nel nord e gli sciiti che fanno altrettanto nel sud. È la sfida del sinodo che non può tacere. In definitiva il sinodo del 1995 dimostra di aver avviato quel cammino che a febbraio ha condotto alla firma della Dichiarazione sulla fratellanza da parte di Papa Francesco e dell’imam di al-Azhar, una dichiarazione che incarna la vera nuova speranza dei popoli ed in particolare dei giovani mediorientali che non accettano più di essere irregimentati dalle milizie in appartenenze ossessive, oppressive.

È per questo che la piazza è ormai incompatibile con questa politica fatta ancora dai signori della guerra civile, dal presidente, Aoun, al presidente della Camera, Berri, al leader di Hezbollah, Nasrallah, al capo dei cristiani dimissionari dall’esecutivo fallito, Geagea. La petizione del presidente Aoun di considerare ingiusto definire tutti corrotti non potrà fare breccia per questo e tanti altri motivi, a cominciare dal noto patto sulle trivelle all’accordo dei grandi potentati economici sulla spesa faraonica per approvvigionare il Paese di corrente non con una centrale elettrica dal costo irrisorio ma con due meganavi dal costo esorbitante. Dunque il governo sopravviverà a se stesso, oggi, ma l’avviso di sfratto parla il linguaggio del sinodo del 1995 e pochi questa volta possono sperare in un’amnistia per restare al potere.

Libano, le ragioni di una crisi che parte da lontano. L'analisi di Cristiano

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