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Il segretario alla Difesa statunitense, Mark Esper, nei giorni passati ha inviato una lettera alle truppe di cui val la pena analizzare il contenuto. Innanzitutto è datata 10 ottobre, ossia arriva ai soldati americani di tutti i ranghi tre giorni dopo l’ordine improvviso della Casa Bianca di abbandonare la Siria. “Improvviso” non è un’esagerazione: i soldati statunitensi presenti all’interno di guarnigioni tattiche sul suolo siriano sono stati avvisati di notte, e sono andati in fretta e furia a svegliare i comandanti curdi con cui condividevano il fronte anti-Isis per avvisarli che le cose sarebbero andate molto male. Nei giorni successivi quegli stessi soldati hanno parlato in forma anonima con i media e per esempio alcuni Berretti Verdi hanno detto al New York Times che “si vergognano” di aver abbandonato i compagni di cinque anni di battaglie vittoriose contro lo Stato islamico al destino dell’operazione turca contro di loro, e che i curdi si sentono ”traditi”. Altri hanno lasciato messaggi non proprio amichevoli ai militari russi che avrebbero di lì a poche ore preso il loro posto nelle basi/avamposto nel nord siriano.

In questo quadro il messaggio di Esper diventa cruciale, perché quanto successo in Siria non possa essere percepito come un segnale generale — l’argomento è tutt’altro che una supposizione: quando il presidente Donald Trump annunciato a dicembre il ritiro dalla Siria per la prima volta in forma ufficiale, il predecessore di Esper, Jim Mattis, rassegnò le proprie dimissioni per incongruenze con la Casa Bianca.

“La nostra strategia di sicurezza nazionale traccia il percorso verso il nostro dominio costante. Limitare l’aggressività avversaria, il nostro primo compito, richiede che ci prepariamo a fondo per la guerra. I leader di tutti i livelli devono infondere nelle loro unità la disciplina necessaria per combattere e vincere nei conflitti futuri”, scrive nella lettera il segretario.

Un incoraggiamento, magari la sovrapposizione è un caso temporale, ma queste parole hanno ancora più valore davanti a chi poteva vedere nel ritiro siriano un segno di debolezza, un motivo per abbattere il morale delle truppe.
“Tutto ciò che facciamo deve contribuire alla prontezza e alla letalità della nostra Forza congiunta. Non abbiamo spazio per il compiacimento in nessun dominio bellico”, aggiunge. La lettera è un richiamo alla necessità, alla bontà, della prontezza operativa, ma diventa una riaffermazione di potenza in un momento in cui Washington, con la mossa in Siria, sembra aver deteriorato la sua sfera d’influenza in una regione chiave come il Medio Oriente.

In questi tempi complicati, scrive Esper, c’è una molteplicità di minacce e i cittadini americani si aspettano “giustamente” dal dipartimento della Difesa (leggi: dai militari Usa) che vengano salvaguardate ”libertà e prosperità”. L’ultima scelta semantica non è casuale: la parola “prosperità” nel documento citato dal segretario, la più recente  National Security Strategy, viene usata per trentadue volte. Il testo, redatto nel 2017, è un bilanciamento tra la linea trumpiana pura e quella più classica guidata dagli apparati come Pentagono, Congresso, intelligence. Lo stesso cerca di fare Esper nella lettera.

Così il Pentagono rassicura i militari Usa (e manda un messaggio a Trump)

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